In Val Ridanna, lo scorso weekend, non è passata inosservata la presenza di Darya Dolidovich, atleta bielorussa, figlia dell’ex fondista Sergei Dolidovich, che ha gareggiato con la divisa della Polonia, ma la sigla BRT. La giovane bielorussa, che diventerà ventenne il prossimo 29 dicembre, è stata la prima atleta a gareggiare come “Biathlon Refugee Team”, la squadra dei rifugiati creata dall’IBU.
“Fino a questa estate non avevamo un team dei rifugiati nel biathlon – ha raccontato Christian Winkler, direttore delle comunicazioni dell’IBU, a Fondo Italia – ma abbiamo ricevuto una richiesta da parte di un’atleta che aveva dovuto lasciare il suo paese. Ci abbiamo lavorato e in occasione del nostro congresso estivo abbiamo cambiato la nostra costituzione, creando così il team rifugiati, inserendolo nel regolamento. In questa maniera diamo la possibilità ai biatleti rifugiati di poter gareggiare senza cambiare per forza nazionalità”.
Winkler ha poi spiegato chi può entrare a fare parte del team rifugiati: “Affinché possano entrare in questa squadra, gli atleti devono essere riconosciuti come rifugiati dal paese in cui vivono attualmente e dalle Nazioni Unite. Se abbiamo queste due condizioni, con il loro status di rifugiato approvato, allora possono far parte del nostro team. Il passato weekend, in IBU Junior Cup, per la prima volta abbiamo avuto un’atleta in gara come rifugiata, Darya Dolidovich. Come avete visto, anche la sigla era BRT. Lei è bielorussa, ma ha lasciato il suo paese, è ufficialmente una rifugiata, quindi è benvenuta nel team, rispetta tutti i criteri, perché il suo status è riconosciuto dalla Polonia. Al momento non abbiamo avuto altre richieste, ma sono convinto che arriveranno”.
Al momento la giovane sta gareggiando con la tuta della Polonia, ma l’IBU ha iniziato a lavorare sulla possibilità di creare una propria divisa per il Biathlon Refugee Team. Ma chi è Darya Dolidovich? La giovane bielorussa, come detto, è figlia dell’ex fondista Sergei Dolidovich che per molti anni ha regolarmente preso parte alla Coppa del Mondo, portando in alto i colori della Bielorussia nel massimo circuito. Una lunga carriera partita con l’esordio a Santa Caterina nel 1993 e giunta fino al 2018, anno dell’ultima apparizione di Dolidovich in Coppa del Mondo, in una 15 km a Seefeld. In mezzo ben 7 partecipazioni olimpiche, oltre a tanti piazzamenti d’onore soprattutto sulle lunghe distanze: una vittoria in una 60 km a Kuopio nel 2001 davanti all’azzurro Pietro Piller Cottrer, ma anche un 5° posto nella 50 km dei Mondiali di Liberec 2009, un 4° posto nello skiathlon di Oslo 2011 e un 5° posto alla 50 km delle Olimpiadi di Sochi 2018, per citarne alcuni. Sulle sue orme e seguendo i suoi consigli da padre-allenatore, Darya ha intrapreso la carriera da fondista, mettendo in fila alcune presenze in gare FIS dal 2019 in avanti. Dopo il trasferimento in Polonia la diciannovenne ha poi spostato l’attenzione sul biathlon, disciplina in cui ha trovato il suo esordio in competizioni internazionali proprio nello scorso weekend in Val Ridanna.
Ma la storia di Darya Dolidovich affonda le radici in un quadro ben più ampio, che si lega alla situazione politica della Bielorussia. Insieme al padre, infatti, è stata costretta ad abbandonare il paese a causa delle posizioni politiche poco affini a quelle del presidente Lukashenko. Motivo per cui la famiglia Dolidovich ha dovuto cercare riparo altrove, trovando accoglienza proprio in Polonia dove – riportano alcuni media locali – ha ricevuto anche il sostegno dalla campionessa polacca Justyna Kowalczyk. Qui, in particolare a Zakopane, Darya ha potuto unirsi a un club sportivo locale con cui si allena e all’interno del quale il padre è allenatore di sci di fondo e al lavoro per potersi specializzare anche nel biathlon. Ad oggi il legame di Darya Dolidovich con la Polonia è forte, tanto che – oltre ad apparire molto ben integrata nel gruppo junior polacco all’interno del quale ha stretto diverse amicizie – prende forma l’ipotesi di poter ottenere la nazionalità polacca.
Tornando sul tema più ampio, occorre poi sottolineare che quella del Biathlon Refugee Team dell’IBU non è una novità nel mondo dello sport. Da anni, infatti, il Comitato Internazionale Olimpico ha creato un proprio team di rifugiati che possono prendere parte alle Olimpiadi. Introdotto per la prima volta ai Giochi di Rio 2016, il team rifugiati accoglie atleti provenienti dai più disparati angoli del pianeta. A Parigi 2024, per di più, il team rifugiati ha potuto permettersi addirittura il lusso di portarsi a casa una medaglia, vinta dalla camerunense di nascita Cindy Ngamba nel pugilato. Ma non c’era solo lei, a Parigi infatti il contingente dell’Olympic Refugee Team era composto da 37 atleti (contro i 16 di Rio 2016 e i 29 di Tokyo 2020), ospitati da 15 comitati olimpici e impegnati in 12 discipline diverse. Numeri che invece, se riportati alle Olimpiadi Invernali, si riducono a zero: non si registra infatti nessuna partecipazione di atleti rifugiati nella storia dei Giochi Invernali.
Guardando ai possibili sviluppi, oltre ad auspicare la presenza di atleti rifugiati alle Olimpiadi di Milano Cortina 2026, non è di certo da escludere la presenza di atleti rifugiati in altre discipline invernali oltre al biathlon, considerando che anche la FIS accoglie già la partecipazione alle proprie competizioni degli atleti con lo status di rifugiati, indicati con la sigla FRT, ovvero “FIS Refugee Team”. Un gruppo inaugurato nello sci alpino dall’iraniana Atefeh Ahmadi, prima in assoluto a ottenere lo status di atleta FIS rifugiata nel 2023, e destinato a espandersi ulteriormente nei prossimi anni.