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Sci di fondo

Sci di fondo – Stefania Belmondo si racconta: dai primi “sci di legno di papà” alle medaglie olimpiche. “Spero di tornare a commentare le Olimpiadi”

Una vita da campionessa, tanti titoli e trofei sulle spalle e altrettanti aneddoti da raccontare. Stefania Belmondo è l’esempio di cosa vuol dire dare tutto per provare a raggiungere i propri obiettivi e poi, evidentemente, riuscirci. La storica fondista azzurra, che in carriera ha raccolto niente meno di 10 medaglie olimpiche e 13 mondiali, è tra le atlete più titolate di sempre della disciplina, non solo a livello italiano, ma in campo internazionale. A scavare a fondo nella storia di Stefania Belmondo, che oggi lavora presso la caserma di Cuneo, è un’intervista rilasciata a La Stampa, all’interno della quale la campionessa piemontese ripercorre la sua carriera, ribadendo la passione che la lega ancora allo sci di fondo e che spera di poter mettere in pratica con un ruolo all’interno della macchina olimpica in vista del 2026.
Si parte con una considerazione su Elena Välbe, storica rivale russa di Belmondo e amica fuori dalla pista, che oggi ricopre il ruolo di presidentessa della federazione russa di sci: “Siamo state avversarie, siamo diventate amiche. Ci siamo frequentate per molti anni. Oggi con la guerra tutto è più difficile, ma comunichiamo lo stesso con gli emoticon”.
Si passa poi agli argomenti cardine dell’intervista e Belmondo fa un passo indietro per parlare degli inizi della sua carriera, quando da piccola metteva gli sci per la prima volta: “Non tutti gareggiano in sport redditizi, nelle prime competizioni che ho vinto io, l’unico guadagno era portarsi a casa la coppa. Poi le cose sono cambiate, ma non si diventa ricchi con lo sci di fondo”. Proseguendo, aggiunge: “A me piaceva da matti lo sci da discesa perché ti buttavi giù a testa bassa, avevi l’adrenalina della velocità, ma costava troppo. Papà era un tecnico dell’Enel, si occupava del funzionamento delle paratie delle dighe nella valle di Demonte, Mi costruì un paio di sci di legno, rossi. Bellissimi, li custodisco ancora adesso. Con quelli ho imparato a sciare, ho fatto le prime gare”.
Poi, dopo aver superato un’adolescenza fatta di screzi con una professoressa che puntualmente sceglieva di interrogarla al lunedì al ritorno dalle gare, si apre una carriera fatta di successi e medaglie, che hanno contribuito a scrivere il suo nome in maniera indelebile negli annali del fondo: “I miei quindici anni di attività (dal 1987 al 2002, ndr) li ho passati a fatica re in mezzo a paesaggi incantevoli, con un unico obiettivo: il podio, l’inno nazionale italiano, la medaglia. Questa era l’emozione che sognavo di provare nelle decine di chilometri spesi a sudare in mezzo alla neve”.
Stafania Belmondo ricorda bene la prima volta in cui è riuscita a battere Elena Välbe e quell’inno italiano l’ha sentito risuonare forte e chiaro: “Eravamo in una gara a Silver Star, in Canada, nelle foreste della zona di Calgary. Una 15 chilometri di Coppa del Mondo. […] Io non sapevo qual era il mio limite. Mi sono buttata. Sono scattata in avanti senza voltarmi, ho percorso un centinaio di metri e ho visto che lei non mi seguiva. O non ce la faceva o considerava il mio comportamento troppo rischioso. E’ così che l’ho battuta dopo anni che vinceva sempre lei”.
Si sfiora poi l’argomento doping: “Come si fa a resistere? Si fa. Si sceglie di farlo. Poi capita che una medaglia ti arrivi per posta. […] Perché le altre, quelle che erano salite sul podio davanti a te e avevano sentito suonare l’inno nazionale, erano state squalificate. E tu, al posto dell’inno, ti devi accontentare di sentire suonare il campanello”.
L’ex atleta azzurra spiega poi la scelta di rimanere in Valle Stura, mettendo da parte altre opportunità per rimanere a casa sua dopo la fine della carriera: “La federazione mi ha proposto di diventare allenatrice, ma avrei dovuto andare a sciare sulle altre Alpi, in Trentino. Ho scelto di rimanere qui con i miei figli”.
C’è infine spazio per parlare della vita attuale di Belmondo, racchiusa tra uffici, allenamenti che non mancano mai e obiettivi per il futuro: “Se mi manca tutto questo? Certo. Ma io continuo a camminare al mattino presto, a macinare chilometri in bicicletta, meglio se in salita. Il mio fisico me lo consente, questione di dna. Sono bradicardica, ad Albertville nel 1992 la mattina della gara avevo 28 pulsazioni”. Proseguendo, in conclusione della lunga intervista, la campionessa azzurra parla del suo rapporto con il fondo al giorno d’oggi e della speranza di poter tornare a ricoprire il ruolo di commentatrice in occasione dei Giochi Olimpici di Milano-Cortina 2026: “Il fondo ho continuato a frequentarlo per un po’ di anni, commentavo le gare oer la Rai. Spero di poter tornare a commentare le Olimpiadi invernali del 2026. Ma non so se mi prenderanno, vedremo”.

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