Ci accoglie con un sorriso fuori dal truck della nazionale norvegese di sci di fondo. Siamo a Planica, nel corso della seconda settimana del Mondiale e Valentina Vuerich ha l’entusiasmo di chi sta vedendo realizzato il suo grande sogno, quello di preparare gli sci per gli atleti della nazionale norvegese. Lo si percepisce in ogni sua parola, nel modo in cui si muove e gesticola mentre parliamo, nel tono entusiasta della sua voce, anche quando ci descrive il dispiacere di aver praticamente perso tutti i suoi atleti alla vigilia di Planica, visto che allora ancora non sapeva che poi in realtà Nyenget avrebbe preso parte alla 50 km proprio come riserva.
Valentina Vuerich ci invita quindi a entrare nel suo nuovo mondo, quello sempre sognato, nel truck della nazionale norvegese. Lo facciamo e già a un primo sguardo capiamo cosa vuole dire la trentina quando, da grande appassionata di calcio (è super tifosa milanista, ndr) ci dice: “Questo è il mio Real Madrid”. All’interno del mezzo, che sembra quasi un appartamento, sicuramente si nota la differenza rispetto ad altre nazionali, con gli skiman o meglio gli addetti e le addette del service che non lavorano in baracche ma in comodissime e larghe postazioni, ben arieggiate, con centinaia di paia di sci all’interno.
«Questa è la mia postazione» afferma mentre ci mostra con orgoglio il luogo dove lavora, proprio di fronte allo skiman di Klæbo, alle prese con gli sci del suo campione. A quel punto Valentina si ferma e inizia a parlare, raccontandoci come è arrivata da Lavazè fino a essere la prima donna a entrare nel service team della nazionale norvegese di sci di fondo.
Ciao Valentina. Andiamo indietro di quasi un anno, al momento in cui è iniziata questa avventura. Intanto com’è nata questa opportunità?
«A marzo 2022, avevo già deciso che non sarei rimasta con la squadra slovena, inoltre avevo saputo che loro avevano intenzione di cambiare completamente il sistema service e allo stesso tempo Anamarija Lampic, con cui ho un grande rapporto, mi aveva già comunicato il suo passaggio al biathlon. Insomma, a quel punto mi sono detta che era ora di cambiare. Conoscendo già da tempo Heidi Weng e avendo con lei un ottimo rapporto, ho pensato di chiederle come avrei potuto propormi alla Norvegia. Contemporaneamente, però, sono stati loro stessi a contattarmi, in quanto lo skiman di Heidi aveva smesso e lei aveva già proposto me. Insomma abbiamo avuto la stessa idea (ride, ndr). A maggio, quindi, appena chiuso il contratto con la Slovenia, ho subito firmato quello con la Norvegia».
Cosa significa per te fare parte di questo team? Credo che per chi lavora nello sci di fondo, arrivare a lavorare per la Norvegia sia il punto più alto.
«Per me è come vincere dieci ori olimpici, è sempre stato il sogno della mia vita. Da quando ho iniziato questo lavoro mi sono sempre detta che un giorno avrei voluto arrivare alla squadra norvegese. Quando, durante una video call, mi hanno detto che mi avrebbero presa, la prima cosa che ho fatto è stata andare da mia sorella Gaia, che era sul divano, le ho comunicato che mi avevano presa ed eravamo entrambe felici. Si è emozionata anche lei, pure se, come sapete, non è una che si lascia andare a facili emozioni (ride, ndr). Un momento indimenticabile.
Come ho sempre detto, la Norvegia è il Real Madrid, non puoi avere una squadra migliore sotto ogni punto di vista. Inoltre qui, sia i colleghi del service, ma anche dirigenti e atleti sono tutti campioni di umiltà»..
Puoi spiegarci com’è il lavoro all’interno del team norvegese, anche confrontandolo alle tue esperienze passate?
«In passato facevo di tutto. Con la Slovenia in certe occasioni mi sono trovata anche a fare la fisioterapista (ride, ndr), gestire alcuni programmi di allenamento. Lì è capitato anche di fare aiuto allenatore e fisioterapista, mentre il massaggiatore cucinava.
Ora, ovviamente, in Norvegia è un lavoro selettivo, un’organizzazione migliore, da nazione leader. Ho sempre tantissimo lavoro da fare, ma è concentrato sugli sci, che è il mio campo. Seguo tre atleti, ma ai Mondiali, dopo il forfait di Heidi (Weng, ndr) sono rimasta solo con una riserva, Nyenget. Quindi ho fatto tanto lavoro di testing, ho sciato credo 35 o 40 km al giorno».
Insomma, il tuo compito è quello di occuparti degli sci di tre atleti, oppure hai anche altre mansioni?
«Seguo Nyenget, Heidi Weng e Myhre, ma mi affidano anche gli atleti nuovi che vengono convocati. Per esempio ultimamente ho lavorato con Melling, una giovanissima, che vi dico già è il futuro del fondo, è fortissima.
Ho avuto però anche un’altra esperienza che mi riempie di orgoglio, perché a Livigno, ho avuto addirittura l’onore di preparare gli sci a Klæbo, perché siamo andati solo con tre skiman e ci siamo spartiti tra noi gli atleti presenti. È stato formativo, mi sono resa ancora più conto di che genere di campione sia, di quanto curi tutti i dettagli. Da fuori, poi, molti non si rendono conto di quanto sia un ragazzo veramente umile.
Quando mi hanno detto che avrei lavorato con Klæbo, quasi non ci credevo, gli ho anche chiesto se avrei davvero lavorato con lui o con il fratello dj (ride, ndr). Quando ho provato gli sci, dandogli quelli che ho ritenuto essere i migliori tra i due, mi ha chiesto sempre un’opinione per scegliere quello giusto, cercava feedback.
Sono stata contenta, anche perché io per prima cerco sempre di instaurare questo tipo di rapporto con gli atleti. Pensate che con Lampic e Stadlober mi sento ancora quotidianamente.
Lo stesso è già accaduto con le atlete norvegesi, tanto che quando sono venute a Lavazè per preparare il Mondiale, mi sono allenata con loro e sono anche venute a casa mia per allenarsi sul mio tapis roulant. Sono proprio contenta di essere qui».
Puoi descriverci il primo impatto con la realtà norvegese?
«Sono andata a Sognefjellet a giugno. Mi sono venute le lacrime agli occhi, quando mi hanno mostrato la mia postazione di lavoro, per altro proprio di fronte al collega che si occupa di Klæbo. Qui mi sono resa conto del sistema di lavoro che hanno. Siamo una macchina di venti persone che continuano a testare, provare, lavorare su strutture e cere senza mai fermarci. Già alle Olimpiadi avevo capito che nei grandi eventi senza una struttura del genere non hai possibilità di sopravvivere. Non puoi competere contro un sistema del genere».
Vuoi dire che una Lampic, inserita in questo sistema, avrebbe vinto di più?
«In Slovenia avevamo spesso degli sci stratosferici, ma vedendo poi il sistema qui, ancora non mi rendo conto di come ci riuscissimo. Avevamo un modo tutto nostro che chiamavamo Balkan Style (ride, ndr) e funzionava, ma qui non andrebbe. Credo che Lampic, trattata nel modo giusto, non soltanto per quanto riguarda i materiali, avrebbe fatto davvero grandissime cose, non solo nelle sprint».
Cosa pensi della sua scelta di passare al biathlon?
«Lei aveva il sogno del biathlon e allo stesso tempo molte sue richieste non erano state esaudite. Sono d’accordo con la sua scelta, perché credo sia forte anche lì. Le dico sempre: “Fai un doppio zero che vinci con tre minuti”. Ci mandiamo una cinquantina di messaggi al giorno».
Torniamo al tuo lavoro con la squadra norvegese. Come siete organizzati all’interno del service team?
«Abbiamo due ragazzi per cere e righe, il settore glide velocità, poi uno che è invece responsabile delle scioline. Ogni skiman ha dai tre ai quattro atleti. Nei giorni di gara proviamo gli sci. Quando ci sono gare in skating, prima delle quali Heidi Weng non prova mai lo sci, sono io a sceglierlo un’ora e mezza prima della gara, lo porto ai ragazzi delle cere, io paraffino ciò che c’è da paraffinare e loro cerano. In classico è diverso, perché scelgo due paia di sci il giorno prima, a meno che non cambino completamente le condizioni. Coloro che si occupano delle scioline vanno fuori a provare, due ore prima ho la risposta della sciolina che va e la applico sugli sci dei miei atleti. Solo io so di quanta sciolina ogni mio atleta ha bisogno e per quale sci, perché ne hanno tantissimi e ogni paio ha delle caratteristiche specifiche. Vado quindi fuori un’ora e mezza prima della gara a provare con gli atleti, scegliamo lo sci da gara e poi lo porto in partenza agli skiman un’ora prima per la cera. Allora non si tocca più.
In Coppa del Mondo siamo undici, perché il bello qui è che anche il manager della nazionale, il loro dt, è sempre fuori che testa».
Comunicate molto tra voi skiman anche se vi occupate di atleti diversi?
«Certamente, abbiamo per esempio vari gruppi whatsapp sui quali riportiamo i risultati e i dati dopo i test. Ne abbiamo anche uno soltanto per gli atleti che hanno Fischer, per esempio, tanto che in occasione dello skiathlon, abbiamo prestato a Østberg gli sci di Heidi, perché rendevano di più su quella neve. Siamo veramente coesi, se ho bisogno di aiuto loro ci sono e al contrario faccio lo stesso io.
Al Mondiale, avendo solo una riserva, ho testato cere e righe, ma anche gli sci di Østberg. Per dire, nel giorno libero, ho provato venti paia dei suoi sci più cere e liquidi.
Alla fine qui sopra ho 350 babies, come chiamo gli sci. Solo Weng ha 130 paia tra classico e skating. Per lo skiathlon avrò provato venti paia da skating e quindici da classico per Østberg».
Come dobbiamo chiamarti? Perché qui speso si usa skiman, non proprio adatto a una donna.
«Io dico sempre waxer, oppure service team. Purtroppo questo è sempre stato un lavoro da uomini, ma ora iniziano a esserci molte più donne. Le squadre hanno anche dei pettorali in più per testare se hanno delle donne nel team. Io spero, ovviamente, che non veniamo prese solo con il pretesto del pettorale in più, ma per il nostro valore. Se ci pensate, però, qui avrebbero pure potuto dirmi di testare soltanto, proprio per usare il pettorale in più, invece mi hanno affidato tre atleti».
Come è nata questa tua passione per la preparazione degli sci che ti ha portato fino alla Norvegia?
«Fino a vent’anni sono stata atleta, ero stata anche aggregata in Forestale, ma dopo due anni non mi hanno confermata. Allora ho iniziato ad allenarmi da sola. Quella è stata la mia fortuna, perché ho incontrato Ivan Hudac, oggi allenatore di Fähndrich, che mi ha diretta due anni dandomi anche la possibilità di allenarmi con Majdic nella sua ultima stagione. Grazie a Ivan, ho imparato cos’è il duro lavoro e ho incontrato la persona più importante della mia vita, all’infuori della mia famiglia, che mi ha introdotta in questo lavoro, perché aveva visto che mi preparavo gli sci sempre da sola e così mi aveva poi proposto di andare con lui in Polonia. È andata bene, due anni lì, poi Fischer, due anni con Stadlober, due con Kowalczyk, quattro con la Slovenia e ora spero almeno altrettanti qui in Norvegia».
Com’è stato per una donna entrare in questo ambiente? Come venivi vista dagli altri?
«All’interno della squadra polacca all’inizio non accettavano il fatto che andavo e comandavo, che ero subito capo skiman. Ho avuto la fortuna che Ivan mi copriva un po’ le spalle. Quando provavano ad attaccarmi, lui mi difendeva. Dagli altri team, invece, mi chiedevano se fossi fisioterapista o allenatore, così quando rispondevo che facevo parte del service team erano tutti sorpresi. Questa cosa mi faceva proprio arrabbiare, anche perché undici anni fa saltavo in aria per nulla, ora sono migliorata (ride, ndr).
Non è stato semplice farsi largo in un ambiente esclusivamente maschile, anche trovare lavoro è stato complicato. Per esempio, in Austria in un primo momento non mi avevano voluta, per poi prendermi invece l’anno successivo. Ho ricevuto tanti rifiuti. Ho dovuto lavorare dieci volte in più rispetto a un uomo per arrivare ad essere considerata nella stessa maniera.
Mio papà mi aveva messo in guardia quando gli avevo detto che volevo fare questo lavoro: “Sappi che tu dovrai lavorare dieci volte di più e dieci volte meglio per avere forse la metà di un uomo”. Lui era contrario che entrassi in questo ambiente. Ricordo che mi guardò come se fossi pazza, quando in auto gli comunicai la mia intenzione».
Quando sei entrata nel service della Polonia, c’erano altre donne che svolgevano lo stesso lavoro?
«No, sono stata proprio la prima. Credo che solo tre o quattro anni dopo ho visto la prima donna tester. Adesso ce ne sono tante, ma che prepariamo proprio gli sci siamo ancora poche.
In questo contesto, a maggior ragione essere arrivata fino alla Norvegia è per me un motivo di orgoglio. Sono la prima donna a essere stata inserita nel service team della nazionale norvegese di sci di fondo e l’ho fatto pur non essendo norvegese».
Come sei stata accolta dal resto del team?
«Io ho sempre detto loro di non trattarmi meglio o con maggior riguardo in quanto donna, ma di essere trattata al loro pari. Sinceramente, mi trovo benissimo, sono amici. Per esempio, il giorno che mi è stato comunicato che Heidi Weng non avrebbe gareggiato al Mondiale, ero molto giù. Allora due di loro sono venuti da me per parlare e consolarmi, tirandomi su il morale. È importante anche questo genere di aiuto, tanto che ancora oggi la persona più importante per me è Ivan con cui mi consulto spesso, ma quando sono in difficoltà mio papà è la prima persona che chiamo».
C’è mai stata la possibilità che lavorassi per la nazionale italiana?
«No, sinceramente non mi sono nemmeno mai proposta. Quando avevo iniziato, Il mio sogno era di preparare gli sci a mia sorella Gaia, ma non è mai stato possibile, anche perché in Italia poi qualcuno avrebbe subito pensato che avrei avuto preferenze. Quando mia sorella ha smesso, per venti giorni ero giù perché ormai consapevole che il sogno non si sarebbe realizzato.
Ovviamente, guardando al futuro non si può mai dire cosa possa accadere. Ci tengo però a dire che l’Italia ha degli skiman bravissimi. Tra tutte le squadre senza truck sono senza dubbio i migliori. È difficile che ci siano gare in cui noti che hanno sci pessimi. Lavorano bene, hanno creato un bel sistema e sono dei grandissimi lavoratori, sono sempre lì fuori a testare. Li vedi che si impegnano tantissimo e quando fanno risultati sono bellissimi nel modo di esultare e si può solo essere contenti per loro».
Fino allo scorso anno anche tu lavoravi all’interno della cosiddetta baracca. Cosa cambia nel truck?
«Tutto! Già il fatto di non dover montare e smontare la baracca fa una differenza enorme. In più, hai la maggior parte degli sci di un atleta nel camion, senza dover fare avanti e indietro, anche questo è un vantaggio enorme. Il sistema di areazione poi è tutt’altra cosa, qui respiri aria pulita, lì in baracca invece è il contrario. Per non parlare dei viaggi. Noi smontiamo il camion poi prendiamo lo shuttle bus e andiamo in aeroporto. Quando sono in Europa mi muovo però in macchina, porto gli sci degli atleti. Al Tour de Ski avere il truck è un vantaggio grandissimo se hai un team numeroso. In Slovenia alla fine potevamo gestirci, ma già una squadra come l’Italia ha tanti atleti».
Qual è il tuo obiettivo?
«Sogno di arrivare alle Olimpiadi con questa squadra, questo è il mio più grande desiderio. Sarebbe un sogno lavorare per la Norvegia, il mio Real Madrid, alle Olimpiadi in Val di Fiemme».