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Sci di fondo

Sci di fondo, Manuela Di Centa: “La rivalità con Belmondo? Sono fiorite delle malignità assurde”

Manuela Di Centa non ha certo bisogno di presentazioni. La dirigente sportiva, politica ed ex fondista italiana, campionessa olimpica ai XVII Giochi olimpici invernali di Lillehammer 1994, ha rilasciato un’intervista ricca di contenuti al Corriere della Sera.
Ha affrontato vari temi, partendo da come guarda al passato: «Con nostalgia mai. E più che guardare, “sento”. Sento e ricordo fatiche, viaggi, paure, malattie, gioie, incontri. E rivivo la morale di papà: mi ha abituato ad amare la natura, il freddo, la neve. Vinci davvero solo nella situazione in cui ti senti meglio».

Manuela poi ha ripercorso i primi anni di carriera: «Nel 1982, quando vinsi l’argento ai Mondiali, era presto: la Fisi nemmeno si accorse di me. La federazione non era pronta all’equilibrio tra maschi e femmine. La svolta nel 1991: il Mondiale in Val di Fiemme segnò un salto culturale. Abbiamo cominciato a far paura alle potenze del fondo». A proposito di donne nello sport, ecco quali ammira di più: «Ho ammirato Lea Pericoli, forte e femminile. Poi Sara Simeoni, la “donna alfa”. Guardavo Sara e mi interrogavo: chissà che cosa mangia, anch’io voglio essere magra così! Altri idoli? Nawal El Moutawakel, prima medagliata musulmana, Irena Szewińska, Nadia Comaneci — ero innamorata di lei — e poi Katarina Witt». Su quest’ultima rivela poi un aneddoto interessante: «L’Italia era vestita da Valentino, avevamo un bellissimo cappotto. Volevo andare a vedere Katarina, ma a Sarajevo nevicava sempre. Le canadesi avevano un eskimo con cappuccio: proposi a una di loro lo scambio dei capi e lei accettò. Fui punita perché lo scambio, oggi in voga, era vietato».
Inevitabile poi, un ricordo sul dualismo Di Centa-Belmondo: «Un po’ sì, però sono fiorite malignità assurde. Le campionesse hanno caratteri differenti, guai se non fosse così. Stefania ed io abbiamo vissuto questa situazione, ma era qualcosa di stimolante: a carriere terminate abbiamo convenuto che è stato bello». In una carriera così lunga sono inevitabili i rimpianti: «Avrei dovuto essere portabandiera nel 1998, ma la mia gara era fissata per il giorno dopo. Ho rinunciato a malincuore, poi nel Cio mi sono battuta per una maggiore attenzione verso gli atleti-alfieri». Ma questa soddisfazione l’ha avuto il fratello Giorgio: «Gli ho detto: lo farai pure per me. Invidiosa? Come potrei? È il mio piccolo! Lo portavo in carrozzina, lo cambiavo, gli ho fatto da mamma».

Dopo una carriera monumentale Manuela è approdata al CIO: «Quando si cercava di rendere olimpico il salto femminile dal trampolino, l’obiezione era: “Se cadono, picchiano il seno, zona sensibile: siamo preoccupati”. Io dissi: “Avete ragione: è la stessa cosa che penso quando immagino un maschio che cade e batte i testicoli”. Silenzio di tomba. Tempo dopo quella battaglia è stata vinta».

Infine, uno sguardo al futuro, ovviamente a Milano-Cortina 2026: «Spero si trovino gli “sci” giusti, vedo tanti ritardi. Ma la macchina funzionerà. Stiamo poi lavorando sul piano turistico in modo strategico: prima, durante, dopo. A Torino 2006 non c’erano ancora questi criteri, è stata Londra 2012 a valorizzarli».

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