E’ stato un avvio di stagione estremamente complicato per il mondo dello sci di fondo.
Inizialmente, il Covid-19 ha messo a dura prova il sistema costruito attorno alle competizioni fra protocolli, tamponi, attese dei risultati e le inevitabili paure e incertezze. Un sistema che a Ruka, per rapporto tamponi-casi positivi, ha retto.
Successivamente, le discusse rinunce di Norvegia, Svezia e Finlandia hanno tolto molta linfa e interesse alle gare di Davos e Dresda, creando un effetto quasi distopico fra la frammentazione del mondo dello sci di fondo e le altre discipine invernali che contemporaneamente marciavano compatte attraverso le difficoltà della pandemia.
Abbiamo telefonicamente raggiunto il Direttore Tecnico della squadra italiana Marco Selle, il quale ha fatto il punto sul difficile mese passato e le convocazioni azzurre per il Tour de Ski, che data la lunghezza dell’intervista, verranno trattate in una seconda e terza parte nei prossimi giorni.
Ciao Marco, il primo controverso e complicato mese di gare della nuova stagione si è concluso. Alcuni avversari, gli squadroni dei tre Paesi nordici, hanno alzato bandiera bianca dopo l’esordio finlandese di Ruka, ma quello più ostico, infido e invisibile, è stato sicuramente il Covid-19. Che mese è stato?
Un’esperienza molto complessa alla quale siamo riusciti a prendere un po’ le misure con i protocolli, quanti tamponi fare, dove farli, come reagire quando qualcuno risulta positivo. E’ stato formativo per la prosecuzione della stagione.
Osservando dall’esterno, viene da chiedersi se non avrebbe semplificato le cose, evitando polemiche e defezioni, una modifica del calendario sulla scia di quanto fatto dall’IBU, la Federazione mondiale del biathlon: due tappe per località, trasferimenti drasticamente ridotti, creando l’ormai celebre “effetto bolla” a protezione delle persone che fanno parte del circuito di una determinata disciplina.
La struttura organizzativa della FIS, non solo per lo sci di fondo, non prevede la possibilità di riassegnare gare, modificare rapidamente il calendario ecc. Non si può togliere una gara a un comitato organizzatore quando gli è stata assegnata. Non si può fare quello che altre discipline, come l’IBU, riesce a fare. Serve rivedere i regolamenti anche per gli anni futuri o non se ne uscirà.
Immagino ci sia una questione di contratti da rispettare ed eventualmente penali da pagare.
Ci sono mille altri vincoli, ma come dicevo, vale per tutte le discipline sotto l’egida FIS. La struttura organizzativa funziona così e diventa complicatissimo fare cambiamenti se in primo luogo non è il comitato organizzatore a rinunciare alla tappa. Le gare sono richieste dalle federazioni nazionali e in quanto parte della famiglia, la FIS cerca di accontentarle. La Germania vuole organizzare la sua tappa a Dresda? La FIS fa il possibile e così poco alla volta il calendario si riempie e non sempre con un criterio definito dal Race Director, che ha poco potere di intervenire e diventa un esecutore di decisioni prese più in alto.
Il forfait dei nordici è stato un terremoto che ha messo a dura prova il mondo dello sci di fondo. Come squadra italiana, vi siete mai sentiti fra Ruka, Davos e Dresda poco tutelati, come se il rischio di contagio fosse troppo alto? I comitati sono stati efficienti? C’è stata differenza nel funzionamento dei protocolli di sicurezza?
Tutte le squadre sono state informate diversi mesi fa che i comitati organizzatori, in base alle normative sanitarie nazionali, avrebbero adottato protocolli differenti. Non è stata una sorpresa. A Ruka non ci aspettavamo niente, eravamo consapevoli che sarebbero stati messi in atto i protocolli comunicati a suo tempo dalla FIS, dal comitato organizzatore in accordo con il ministero della sanità o dello specifico distretto poiché in Finlandia possono esserci molte differenze fra distretto e distretto.
Dalle carte si è passati a fare i conti con la realtà. Dalla teoria alla pratica.
E’ stato tutto una novità e una scoperta. Di cose migliorabili ne abbiamo viste molte, dalla gestione dei tamponi, passando per la lentezza della comunicazione dei risultati, finendo con la location dove effettuare i test. Non ci siamo però accorti più di tanto di quanto poi gli scandinavi hanno lamentato la settimana successiva. C’era la consapevolezza di quali migliorie apportare, sapendo però che già i protocolli di Davos sarebbero stati diversi. In Svizzera si accedeva con un pass provvisto di QR Code, la tutela soprattutto nei giorni di gara era diversa e c’erano differenze nella gestione dei tamponi fra il laboratorio svizzero e quello finlandese. Infine, a Dresda si svolgeva tutto vicino all’albergo che ospitava atleti e staff, così siamo entrati nella “bolla” è stato più semplice gestire il weekend di gara. Eravamo tutelati perché tutti tamponati sulla scia del tennis o del calcio. La situazione a Ruka ovviamente era più complessa poiché c’erano anche il salto e la combinata nordica, ma il sistema ha retto bene con un rapporto di 5 positivi ogni 1000. Rispetto ai dati di altri sport professionistici, direi che ci si può ritenere soddisfatti.
Dopo tanto lavoro fatto nella preparazione estiva in condizioni così critiche, non è mai balenata l’idea di seguire i nordici nel ritirarsi dalle tappe di Davos e Dresda?
A maggio, quando siamo partiti, la situazione in Italia era sicuramente molto più complicata rispetto a quasi tutti gli altri Paesi del mondo. Noi abbiamo iniziato con l’obiettivo di provarci fino in fondo a mettere in piedi la nostra stagione, facendo tutto quello che era possibile come preparazione atletica, energie, investimenti economici e protocolli interni per cercare di limitare i contatti stretti. L’organizzazione interna è stata ovviamente molto diversa rispetto agli anni passati, con una mole di lavoro più che doppia. E’ stato un grossissimo impegno dal primo giorno fino a oggi e rinunciare a gareggiare sarebbe stata l’ultima cosa che avremmo mai fatto, a meno che non ci fosse andata di mezzo la salute degli atleti. Penso che a Ruka ce ne saremmo resi conto.
In sintesi, mi pare che le cose abbiano funzionato, dandovi una certa tranquillità nel concentrarvi su quella che dovrebbe essere l’ordinaria amministrazione in una stagione normale.
Come dicevo, il numero di contagi a Ruka è stato più basso di quel che mi aspettassi. Una volta che vengono fatti i tamponi hai più certezze, sai che non ci sono asintomatici all’interno della squadra, ma le possibilità che qualcuno risulti positivo aumentano notevolmente. Confrontatici poi con la realtà, abbiamo seguito i protocolli e anche se avessimo rinunciato a Davos e Dresda, le gare si sarebbero svolte lo stesso con valore di Coppa del Mondo. Per assurdo a Ruka erano presenti 20 nazioni, mentre a Davos e Dresda il numero era salito a 25. Date le condizioni, fra le altre ragioni per le quali non avremmo mai rinunciato, c’è il fatto di essere dipendenti pubblici, sponsorizzati, che fanno parte di un mondo sovvenzionato dallo Stato attraverso il CONI, quindi pagati per provarci. Inoltre, abbiamo portato rispetto ai comitati organizzatori che hanno investito e ci hanno creduto. Era giusto dare loro la soddisfazione di essere presenti. Nessuna nazione, tranne le nordiche, ha mai pensato di rinunciare. Come squadra italiana vedremo se partecipare a tutte le gare. Se così non fosse, la scelta dipenderà solo ed esclusivamente da una decisione tecnica, come lo scorso anno a Lillehammer, legata alle nostre risorse e atleti poiché il nostro movimento non ha la profondità di Norvegia e Russia. E’ importante centellinare le energie di chi ha la possibilità di fare risultato.
Se ho capito bene, la gara avrebbe mantenuto rango di Coppa del Mondo anche in caso di una quarta rinuncia spontanea di una delle prime dieci squadre della classifica per nazioni.
Esatto. Nessuno ha impedito a Norvegia, Svezia e Finlandia di partecipare. Fino all’anno scorso, se una nazione non poteva prendere parte a una tappa per una questione politica o sanitaria, bastava per far saltare l’appuntamento di Coppa del Mondo. Difatti a marzo l’Italia rischiava di essere bandita dagli Stati Uniti per l’elevato numero di contagi, mettendo così in crisi il comitato organizzatore della tappa americana poi cancellata. Il numero è stato quindi portato a un massimo di tre; con la quarta defezione forzata di un Paese fra i primi dieci della classifica per nazioni, la tappa non sarebbe più valida ai fini della Coppa del Mondo.
Qual è la tua opinione sulle rinunce dei nordici?
E’ stata una sorpresa vedere tutte queste critiche e paure da parte dei norvegesi seguiti a ruota da svedesi e finlandesi. Secondo me, ciò che li ha più spaventati, è stato il fatto di dover, in caso di contagi, restare bloccati in quarantena lontani da casa. Mi fa specie vedere che, in tutte le altre discipline nordiche, i norvegesi sono regolarmente presenti, quando i protocolli adottati dal fondo non sono inferiori a quelli del salto e della combinata. Non capisco quindi se ci sia una forma di polemica nei confronti dell’attuale vertice dello sci di fondo mondiale.
Senza dover fantasticare troppo su eventuali retroscena e congetture, è effettivamente quello che è venuto da pensare poiché non c’è una decisione istituzionale a livello nazionale che includa tutti gli sport, nemmeno quelli contigui nordici della FIS.
E’ il loro sport nazionale. L’espressione dell’aereo abbandonato in mezzo alla turbolenza usata da Federico Pellegrino è calzante. E’ la sensazione che abbiamo avuto un po’ tutti noi delle squadre che hanno deciso di andare avanti. Ho visto Chicco legare con Alexander Bolshunov, io stesso mi sono avvicinato a tecnici stranieri con i quali non avevo mai interagito. C’è stata una certa solidarietà. Rispetto comunque la loro decisione, quando c’è di mezzo la salute è giusto che ognuno si tuteli come meglio crede.
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