Oggi compie settant’anni una leggenda dello sci di fondo italiano, Maurilio De Zolt. Nato il 25 settembre del 1950 a San Pietro di Cadore, il “Grillo” ha regalato grandissime gioie allo sci di fondo italiano, nonostante sia entrato in nazionale soltanto a 27 anni. Storico l’oro mondiale vinto nella 50km di Oberstdorf (e proprio quest’anno nella località tedesca si disputerà un nuovo Mondiale), ma De Zolt fu anche splendido protagonista della staffetta che vinse l’oro alle Olimpiadi di Lillehammer del 1994 facendo scendere il silenzio in uno stadio stracolmo di norvegesi. Un trionfo arrivato a 44 anni nella stagione del suo ritiro ufficiale, il coronamento di una splendida carriera. Ai Giochi Olimpici ha vinto anche due medaglie d’argento, sempre nella 50km, a Calgary nel 1988 e Albertville nel 1992. Tre argenti anche ai Mondiali, uno individuale e due in staffetta, con due bronzi entrambi individuali. A questi successi va aggiunta la vittoria di 19 titoli italiani e soprattutto quattro vittorie nella Marcialonga, record che condivide con Jørgen Aukland.
Per festeggiare il compleanno del “Grillo” proponiamo il profilo a lui dedicato scritto da Giorgio Brusadelli per Fondo Italia alcuni anni fa.
Quando è entrato in nazionale aveva già 27 anni; quando ne è uscito 44. Nel mondo del fondo, e non solo in quello italiano, il "piccolo grande uomo" Maurilio De Zolt ancora oggi è quel personaggio leggendario capace di mobilitare la sua vallata, quella del Comelico, solo se si rimettesse gli sci. Classe 1950, è entrato nel Guinnes dei primati come il fondista più anziano (44 anni) a vincere le Olimpiadi. Per la verità di olimpionici più vecchi di lui negli sport invernali ce ne sono stati altri tre, ma in una disciplina ben diversa, il bob, non nel fondo e specialmente in una gara, come la staffetta, dove l’esperienza ha giustamente il suo peso ma a contare di più sono doti come lo scatto e i cambi di ritmo che non rientrano certo nel patrimonio di chi gli "anta" li ha già passati da un po’. A meno che non sia un fenomeno….. E Maurilio, effettivamente, fenomeno lo è sempre stato, dall’inizio alla fine della sua carriera agonistica e anche dopo. Nello sci come nella corsa, alla quale non ha mai dedicato allenamenti specifici. Eppure, correndo l’ora in pista, ha superato la distanza di km 18,750. Da amatore, a 50 anni compiuti, senza allenamento, è stato ancora in grado di superare 17 km e mezzo. Ma c’è un altro esempio che prova come si sia di fronte ad un atleta poliedrico. In bicicletta, in una sfida fra fondisti, con un allenamento sommario, da Prato allo Stelvio al Passo ha impiegato meno di un’ora e mezzo sui 30 e passa km, staccando di un paio di minuti Gigi Weiss, campione del biathlon che andava forte anche sulle due ruote, e ancor di più Francesco Moser, che scalatore non è mai stato ma che si stava preparando in quel periodo per uno dei tanti record effettuati sotto la guida del prof. Conconi, che prevedevano particolari lavori di forza resistente in salita.
Quando alla fine degli anni ’60 appare sulle piste di sci, portato da Stelio Busin, il factotum dei Vigili del fuoco di Belluno, nessuno scommetterebbe una lira su Maurilio. Fisicamente non è certo lo stereotipo dell’atleta in generale e del fondista in modo particolare: piccoletto, stile un po’ approssimativo, saltellante, aggressivo, si guadagna quel nomignolo di "grillo" che sarebbe apparso ancor più appropriato dopo l’entrata in scena del passo pattinato che ha esaltato compiutamente le sue caratteristiche tecniche ed agonistiche. Fatica a sfondare e deve passare la trafila delle gare zonali e delle granfondo prima di farsi conoscere. I pregiudizi sono sempre gli stessi: troppo piccolo, scia male, è pieno di difetti. Trova un posto in una segheria e ci resta per due anni. Si allena nel poco tempo libero che gli resta e nei fine settimana. La sua prima gara è la Coppa Casera Razzo. Tesserato per l’Unione Sportiva Val Piova di Laggio di Cadore, fa parte della categoria juniores. Arriva quarto, che è certamente un piazzamento lusinghiero per un neofita, che personalmente lo lascia soddisfatto ma non impressiona gli avversari e i tecnici presenti. A credere in lui c’è solo Stelio Busin, allenatore del Centro Federale del Comelico, che diventa il suo primo allenatore, lo inserisce nella squadra dei Vigili del fuoco e lo avvia anche alle gare di marcia in montagna. Nel ’70 Maurilio va a Roma per il servizio di leva nel Vigili del fuoco. Viene assegnato ad Agordo e quindi trasferito al distaccamento di Santo Stefano, a due passi da casa.
Finito il servizio di leva, cambia lavoro, mettendo a frutto il diploma di congegnatore meccanico. Entra alla Holzer di Belluno, specializzata nella costruzione di materiale elettromeccanico. A 24 anni si sposa con Maria Luisa, che gli darà tre figli (Luca, Tiziana e Michela) e che avrà una parte importantissima nella sua vita di atleta quando, rientrato nei Vigili del fuoco, potrà finalmente diventare un “professionista” del fondo. Non disponendo di una gran squadra, poiché il gruppo sportivo “De Vecchi” dei Vigili del fuoco di Belluno è una società sportiva come tante, a carattere locale, nella staffetta Busin lo schiera in prima frazione. Gioca subito la carta migliore per metterla in evidenza e far ricredere i tanti scettici. Il tempo e l’eventuale distacco costituiscono inoltre il modo più pratico e immediato per valutare la condizione e i progressi del suo pupillo che, senza un’attività giovanile alle spalle, non dispone di altri termini di paragone. Per tre anni consecutivi Maurilio vince il lancio della staffetta 4×10 km agli assoluti. Ormai si è fatto un nome, è già considerato uno dei migliori fondisti italiani, ma i pregiudizi restano. Troppo vecchio per entrare in nazionale, sostengono in FISI; come contentino lo inseriscono nella squadra P, quella dei “probabili”. Come spesso è accaduto in quel triste periodo, non si vedeva al di là del proprio naso. Avevano sottomano il potenziale campione e lo snobbavano. Eppure in ogni occasione il "pompiere" di Presenaio di San Pietro di Cadore, al di là dei buoni risultati ottenuti, dimostrava grinta, carattere e una voglia di vincere che avrebbero dovuto far passare in secondo piano le carenze stilistiche. Solo Busin, e Dario D’Incal in un secondo tempo, hanno capito che Maurilio era nato vincente e lo avrebbe dimostrato, costruendo il suo personaggio e i suoi risultati su una filosofia dello sport e della vita che la dice lunga sul suo carattere. A chi un giorno gli chiese se non si sentisse in stato di inferiorità di fronte a campioni carismatici e atleti grandi (anche fisicamente) e possenti come Mieto, Svan o Wassberg, rispose un po’ piccato: "Sono sicuramente più grossi di me, ma anche loro hanno due palle come le ho io. Quindi possiamo discuterla". E lo avrebbe dimostrato ripetutamente affrontandoli senza soggezione alcuna alle Olimpiadi, ai Mondiali e in Coppa del Mondo, prendendo ma anche restituendo batoste e guadagnandosi ogni volta, tranne a Lahti, almeno una medaglia.
La più esaltante sicuramente quella d’oro della staffetta delle Olimpiadi 1994, a Lillehammer, di fronte a decine di migliaia di spettatori, quando aveva quasi 44 anni e solo pensare di schierarlo in questa gara sembrava una pazzia. Una carta che Vanoi si sentì di giocare, dopo il 5° posto nella 30 km di apertura, contro la logica e contro la tattica che consigliavano uno schieramento diverso che quantomeno il bronzo lo garantiva. Pur con tutti i rischi del caso, questa volta si voleva puntare all’oro. Per questo lo convinse a starsene calmo, a rinunciare alle altre gare per puntare tutto sulla staffetta. E gli affidò proprio il lancio, in tecnica classica, convinto che anche nel passo alternato Maurilio sarebbe stato in grado di battersi alla pari con i grandi specialisti. Grinta, carattere, combattività e quel gran cuore che era solito buttare nella mischia avrebbero ovviato alle carenze di stile e contribuito ad aumentare la frequenza dei suoi passetti in modo che reggessero le lunghe e armoniose scivolate di Sivertsen e Myllilae. E così è arrivata la più bella medaglia del fondo italiano, perché De Zolt ha dato il cambio staccato di soli 10", un nulla per Albarello, grande alternista, che ha provveduto ben presto a colmare il divario replicando con cattiveria alle schermaglie e ai trucchetti di Ulvang e Kirvesniemi. Il gioco a quel punto era fatto perché Vanzetta non ha mai fallito una staffetta e si è ripetuto nello scontro con Alsgaard e Rasanen, mentre Fauner, in caso di arrivo allo sprint, era una garanzia. E lo ha dimostrato quando si è trovato solo con Daehlie dopo aver perso Isometsa su una salita. Con il più grande fondista di sempre ha giocato come fa il gatto con il topo.
Quel lancio di Lillehammer, in pratica, ha riportato De Zolt agli albori della carriera, quando per lui la prima frazione era d’obbligo. Ma che non fosse solo un atleta "da lancio" lo dimostrò agli assoluti di Capracotta, nel 1977, dove dominò la 50 km. A questo punto non si potevano più accampare né scuse né remore: il direttore agonistico Azittà, che gli aveva promesso di metterlo in squadra in caso di vittoria, gli aprì le porte della nazionale, allenata in quel periodo da Tonino Biondini e Dario D’Incal. E fu quest’ultimo, da quel momento, a prendersi cura di Maurilio con la stessa passione e la stessa fiducia del suo primo allenatore Busin, e a dargli una mano ogni volta che volevano estrometterlo dalla squadra ritenendolo ormai troppo vecchio. Gli è sempre stato vicino e gli ha insegnato ad allenarsi da solo. Fiducia ampiamente ripagata perché l’innesto di De Zolt ha contributo a far uscire il fondo italiano da una crisi che si trascinava da una decina d’anni e che sembrava irreversibile. Una marcia lenta ma progressiva verso il podio. Due Mondiali (Lahti 1978 e Oslo 1982) e due Olimpiadi (Lake Placid 1980 e Seraievo 1984) di assestamento e di conquista di posizioni sempre più dignitose e finalmente le prime medaglie.
Arrivano (bronzo nella 15 km e argento nella 50 km e nella staffetta) nel 1985 a Seefeld, in un Mondiale un po’ anomalo dal punto di vista della tecnica perché è il momento in cui il passo pattinato comincia a soppiantare l’alternato. Non c’è ancora una precisa distinzione fra le due tecniche: ognuno scia come preferisce. Passo alternato con la sciolina di tenuta, il mezzo pattinato (tecnicamente definito scivolata spinta pattinata che si esegue con una sola gamba) introdotto dall’americano Koch nelle gare di Coppa e dal finnico Siitonen nelle granfondo con sciolinatura ridotta, o addirittura il pattinato completo ma con la normale attrezzatura da tecnica classica: sci da 210 cm senza sciolina di tenuta ma con paraffine di scorrimento su tutta la lunghezza, bastoncini della lunghezza usuale e le solite scarpe scollate sulla caviglia. In questa improvvisazione i nostri fondisti ci sguazzano, perché, dopo gli svizzeri, erano stati i primi ad allenarsi con la nuova tecnica, aborrita invece dai nordici. Ritenevano che venisse ad “inquinare” i canoni tradizionali del fondo.
De Zolt, che inizialmente ha avuto grossi problemi con la nuova tecnica, è comunque il primo azzurro ad andare in medaglia: 3° nella 15 km, con Vanzetta 4° a soli 6" da lui. Un trionfo per la squadra italiana: i tecnici e il direttore agonistico Azittà piangono per la felicità. Il bronzo li ricompensa dopo anni di amarezze e umiliazioni. Con la staffetta un altro salto avanti: è argento. Maurilio, in terza frazione, è scatenato. Fa il battistrada di un gruppetto di 4 concorrenti e sulla prima salita stacca lo svizzero Ambuhl e quindi raggiunge e pianta lo svedese Eriksson, che era partito con un vantaggio di 30” ma lo aveva progressivamente perso. Dopo lo svedese molla anche Kirvesniemi. Gli resiste solo il norvegese Holte, che però è costretto a cedere sul duro strappo che precede il finale in discesa, si butta verso il traguardo e lancia Ploner con 8” di vantaggio. Contro Aunli, però, non c’è niente da fare: è il migliore dei nordici nella nuova tecnica. E’ già tanto che Ploner riesca a resistere al ritorno di Svan. Il capolavoro nella 50 km, con un altra medaglia d’argento, ad un minuto da Svan, sotto una fitta nevicata, in quell’atmosfera che ha sempre esaltato Maurilio. Respira aria di casa perché mezzo paese, parroco in testa, è venuto ad incitarlo. Sventolano le bandiere e le bottiglie passano di mano in mano. La gara è appassionante perché a fasi alterne vede il predominio di Svan e Sachnov nella prima metà, con De Zolt vicinissimo. Il sovietico crolla verso il 30° km, Aunli sorpassa momentaneamente Maurilio di 11”, ma ne perde una ventina nel contrattacco su una lunga salita. Nel finale Maurilio è il solo a tenere il passo di Svan, al quale cede solo 9” in 10 km, ma ne recupera altri 39 ad Aunli, assicurandosi così la medaglia d’argento. Il “Cigno” chiude in 2h10’49” la più veloce 50 km della storia del fondo fino a quel momento, su una neve che non è certo adatta a far velocità; De Zolt è a 1’03”.
Sono medaglie che rilanciano il fondo italiano e la nazionale, dove con l’uscita di scena dell’allenatore finlandese Vilje Sadehariu dopo la magra di Saraievo, si respira un’aria muova. C’è ancora un finlandese, ma è Jarmo Punkkinen, che fortunatamente ha imparato subito l’italiano, a differenza del suo predecessore che doveva essere assistitito dall’interprete, e con lui si può discutere. Fra l’altro è molto competente anche per quanto riguarda le nuove metodologie di allenamento, e si integra perfettamente con il prof. Conconi che, per De Zolt, prima che lo scienziato che collabora con la squadra, è soprattutto un amico nel quale crede ciecamente. Secondo solo a D’Incal. Con Sadehariu, invece, De Zolt si era scontrato fin dal primo approccio. Fra loro non c’è mai stato feeling. Per un montanaro abituato al vino e alla grappa, che ha nella carne ai ferri e nella cacciagione il suo piatto preferito e che si cuoce gli spaghetti in camera quando non sono compresi nel menù, eliminare ogni tipo di alcolico, mangiare pane nero, pasteggiare con il latte e ridurre la carne sostituendola con le patate come Sadehariu pretendeva dalla squadra era peggio di un’eresia. Roba da far venire il voltastomaco. Un insulto alla secolare tradizione del Cadore, dove la cucina può essere povera ma saporita e dove il tempo libero lo si passa al bar davanti ad un bicchiere di frizzantino. Il tempo di prendere atto del diktat del nuovo allenatore, con il quale non c’è possibilità di dialogo, e lui era già in camera a fare le valigie e alla fine a cedere è l’integralista Sadehariu che cerca un compromesso.
Da quel momento De Zolt sarebbe stato libero di mangiare e bere quel che preferisce, tanto più che i risultati non ne risentono. Neppure quando ci scappa qualche bicchiere di troppo. Chi scrive ricorda ancora, agli assoluti di Sappada del 1986, l’antivigilia della 50 km. La neve si misurava a metri e il paese era praticamente isolato poiché due slavine avevano bloccato entrambi gli accessi da S. Stefano e dalla Carnia.
Ci si arrivava solo a piedi e a proprio rischio e pericolo. La 50 km era in programma il martedì e la domenica De Zolt l’aveva passata girando da un bar all’altro, con il suo amico più stretto e con tutti i brindisi di circostanza offerti dagli innumerevoli tifosi. Lui a Sappada era di casa. Già alticcio a mezzogiorno, su quel ritmo avrebbe continuato fino a sera. Neppure 36 ore dopo era in pista, con la grinta di sempre, davanti ad almeno 15 mila spettatori. Per venire a vederlo erano state chiuse le scuole e le fabbriche di tutta la valle. Un tifo da stadio di calcio. I tifosi per De Zolt sono sempre stati importantissimi, e non soltanto perché gli danno la carica. “E’ il mio pubblico che mi aiuta a continuare, a superare le difficoltà, a farmi dimenticare l’età che ho sulla carta di identità, ha sempre detto. Sono uno stimolo per andare avanti, perché ti dà una gran soddisfazione vedere la gente che ti incita e che ti è vicina in Italia come all’estero. Essere benvoluti è sempre bello, direi meraviglioso”.
In una splendida giornata di sole che metteva finalmente fine alle nevicate, sulla salita che gli sarebbe stata intitolata e che è stata poi eliminata nell’attuale anello perché ritenuta troppo massacrante, ha letteralmente distrutto la corsa e gli avversari.
L’hanno finita in pochi; per prendere i distacchi non serviva il cronometro, bastava una comune sveglia. Il De Zolt di allora lo si è rivisto nella 50 km che, a Oberstdorf, nel 1987, chiude un Mondiale già annichilito dall’imprevisto trionfo di Albarello nella 15 km davanti a Wassberg. Gli svedesi in questa occasione erano obiettivamente i più forti. Primo (Wassberg) e 3° posto (Maybaeck) nella 30 km, primi nella staffetta dove l’Italia arriva quinta, ma nelle altre gare si trovano a fare i conti con gli azzurri. Quello di De Zolt è un trionfo che si annuncia fin dal primo controllo: fa una corsa di testa dal principio alla fine, senza la minima flessione, neppure quando Wassberg gli si riporta addosso. Pare impossibile, ma Maurilio riesce ad aumentare la cadenza e con un finale eccezionale lo ributta a 22". Per lui, come per Nones nel 1968, è la consacrazione definitiva: è entrato di diritto nell’olimpo dei nordici e dei sovietici. Questa medaglia premia dieci anni di duro lavoro, di allenamenti di un’intensità tale da fiaccare chiunque non avesse avuto le stesse motivazioni, la voglia di migliorarsi sempre, di dimostrare che a fare la differenza non sempre sono lo stile e la statura, ma certi attributi che consentono, in ogni occasione, di sfidare se stessi e il tempo che incalza ed essere sempre vincenti.
L’oro di Oberstdorf è solo un’altra tappa di una carriera che qualcuno vorrebbe fargli chiudere, ritenendolo ormai troppo vecchio. C’è ancora la medaglia di bronzo nella 50 km in Val di Fiemme nel 1991, dietro Mogren e Svan che sarebbe di per se stessa il più degno coronamento per un atleta già quarantenne, ma De Zolt continua. Altri successi nei campionati assoluti, fino a totalizzare complessivamente 19 titoli. Tutti in gare individuali: quattro 15 km, cinque 30 km, e ben dieci 50 km. La chiusura è con il botto della staffetta di Lillehammer che premia una vita di sacrifici. Ha vinto più di tutti. Se fosse stato stato capace di comportarsi in modo più tattico e attendista, avrebbe potuto pareggiare anche le 10 vittorie consecutive di Maria Canins alla Marcialonga, mentre si è dovuto "accontentare" di iscrivere solo per quattro volte il suo nome dell’albo d’oro della massima granfondo italiana. Nel 1986 (allo sprint su Hallenbarter), nel 1987 (ancora sprint, ma a pari merito con lo svedese Blomqvist, anche se Maurilio resta convinto di averlo preceduto), nel 1991, di nuovo davanti a Blomqvist, stavolta staccato, e nel 1992 piantando tutti sulla salita della cascata che per scarsità di neve ha preso il posto di quella di Castello. Nelle occasioni in cui qualcuno lo ha preceduto sul traguardo di Cavalese, a batterlo è stato il suo carattere combattivo prima ancora che l’avversario. Sempre impegnato nelle posizioni di testa invece che starsene tranquillo nel gruppo per scatenarsi poi sulla salita finale. Quella del temporeggiatore è una tattica che fa a pugni col suo carattere combattivo, e alla fine anche l’omino di acciaio è costretto a pagare, con l’eccessivo dispendio di energie, una condotta di gara scriteriata. Inutile cercare di farlo ragionare: gli applausi se li vuole guadagnare, certi calcoli non fanno per lui.
Per quanto ci tenesse in modo particolare, ha invece fallito ogni attacco alla Vasaloppet. Ha debuttato nel 1974, quando era ancora un amatore, e ci è andato, dividendosi le spese del gasolio e del traghetto, con Ivo Andrich e due ufficiali loco amici partendo da Belluno con un pulmino carico di entusiasmo, di “razioni K” e di qualche damigiana di vino. Una gara da incosciente, per uno pressoché senza allenamento e senza esperienza in una prova in cui l’esperienza è fondamentale e che richiede una preparazione specifica e non l’improvvisazione, tanto che grandissimi campioni ci hanno sbattuto il muso. In testa per 50 km e poi il cedimento progressivo per crampi e per sfinimento. E’ comunque arrivato 40°. E’ andato vicino alla vittoria solo nel 1986, alla terza esperienza, ma una maledetta scivolata su una placca di ghiaccio lo ha messo a terra nel momento più bello. Ha tenuto sotto controllo la gara fino al finale, quando è riuscito ad avvantaggiarsi con tre svedesi, ma la caduta a mezzo chilometro dal traguardo ha fatto sfumare il sogno coltivato da tempo, mentre Bengt Hassis otteneva il secondo successo consecutivo.
Non è cambiato neppure dopo il pensionamento. Ha lasciato i Vigili del fuoco dopo 30 anni di servizio effettivo e smentendo certe voci che lo vorrebbero male in salute, ha continuato per anni a coltivare le sue grandi passioni di sempre, la caccia e la pesca, a fare sport attivo e ad elevato livello, a indossare qualche pettorale. Da amatore, ma sempre in gara con se stesso e con gli altri.