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Biathlon , Interviste

Armin Auchentaller ci introduce nel biathlon statunitense: “Qui pochi atleti, tanta passione e qualche bella novità”

Sta vivendo la sua seconda esperienza negli Stati Uniti, dopo aver già guidato la nazionale di biathlon a stelle e strisce per cinque anni dal 2009 al 2014, prima di affrontare un quadriennio olimpico alla guida della nazionale svizzera femminile. Armin Auchentaller è un vero e proprio giramondo del biathlon, un tecnico che ama porsi delle sfide importanti, come quella di aiutare il movimento statunitense a crescere. Quest’anno l’allenatore di Anterselva, che ha anche guidato l’Italia per due anni tra il 2007 e il 2009, si è tolto pure la soddisfazione, proprio sulla pista per lui di casa, di vedere una sua atleta andare a medaglia nella sprint mondiale, Susan Dunklee, capace di arrivare addirittura all’argento.
        
Abbiamo contattato Aunchentaller mentre è nella sua Anterselva, dove ha passato tutto il lockdown a causa dell’emergenza coronavirus. L’allenatore italiano spera di poter poi raggiungere gli Stati Uniti, dove anche le sue atlete sono oggi divise tra gli stati di Vermont, New York e Utah, in attesa che la situazione migliori e possano tornare ad allenarsi tutte assieme. Con l’allenatore sudtirolese abbiamo parlato, quindi, non soltanto dell’ultima stagione e delle aspettative in vista della prossima, ma cercato soprattutto di conoscere meglio il mondo statunitense.

Essendo un’intervista molto lunga, l’abbiamo divisa in due parti. Quella che pubblichiamo oggi verterà sul movimento statunitense, mentre domani ci concentreremo sui risultati ottenuti dalla squadra allenata da Auchentaller e sugli obiettivi futuri.

Buon pomeriggio Armin. Quando ha preso la guida della squadra femminile due anni fa, ha trovato un movimento in crescita rispetto alla sua prima esperienza negli Stati Uniti?
«Diciamo che non c’è stata una crescita importante, in quanto i numeri sono rimasti più o meno gli stessi. In tutti gli USA, per esempio, le donne senior sono soltanto otto, quindi veramente poche. Diciamo che negli ultimi anni, forse qualcosa sta iniziando a cambiare dal basso, in quanto Tim Burke sta dirigendo la sezione “development” del biathlon statunitense, occupandosi della crescita dei giovani, creando un movimento che parte da sotto. Diciamo che ci troviamo più o meno nella situazione italiana di trent’anni fa, quando avevamo alcuni uomini che ottenevano grandi risultati internazionali, ma i numeri erano bassi. Ci vorranno però tra i cinque e i dieci anni per vedere i primi risultati del grande lavoro che sta facendo Burke».
    
Ma il pubblico statunitense segue il biathlon? Essendo uno sport molto spettacolare, dovrebbe rappresentare un prodotto perfetto per loro.
«Fino allo scorso anno le gare venivano seguite su internet probabilmente soltanto da amici e parenti degli atleti impegnati, oltre a qualche appassionato praticante. Fortunatamente dalla passata stagione Olympic Channel ha iniziato a trasmettere le gare in patria ed è per noi molto positivo, in quanto il pubblico statunitense sta scoprendo la nostra disciplina. Sicuramente il biathlon è uno sport che ha grandi potenzialità negli Stati Uniti, soprattutto grazie alla sua spettacolarità. Mi aspetto che, almeno coloro che abitano nei centri di montagna, possano restare affascinati dal biathlon. Al momento in queste aree è molto più in voga lo sci di fondo».

Effettivamente negli Stati Uniti lo sci di fondo ha grande tradizione e negli ultimi anni stanno arrivando tanti risultati di rilievo, anche dai più giovani.
«Si, qui hanno veramente un gran bel vivaio nello sci di fondo. Questo sport ha un grande vantaggio rispetto al nostro, in quanto viene praticato nei college, dove i più bravi possono in diversi casi anche ricevere uno stipendio, oppure riuscire quantomeno a pagarsi gli studi o una parte di essi. Così molti atleti che praticano il biathlon, quando passano al college, scelgono lo sci di fondo per pagarsi gli studi e costruirsi un futuro. Il 75% dei componenti della nostra nazionale ha praticato il fondo al college per poi tornare al biathlon. Tanti giovani biatleti, che magari hanno anche fatto i Mondiali giovanili, smettono per andare al college oppure si danno al fondo, e una volta finito ripartono col biathlon. Fortunatamente qualcosa ha iniziato a muoversi, visto che un college dello stato di New York, non distante da Lake Placid, il Paul Smith College, ha finalmente aperto ai giovani biatleti, dando loro la possibilità di studiare e avere un supporto. L’augurio è che anche altri possano seguire questo esempio. L’ideale sarebbe avere un paio di college ad Est e altrettanti nell’Ovest, per poter dare un maggiore slancio alla disciplina. In questa maniera vedo la possibilità di aumentare i numeri».

Quindi l’unico sostegno economico può arrivare dai college?
«Negli Stati Uniti non hanno i gruppi sportivi, come in Italia. C’è anche chi sceglie di entrare nell’esercito, seguendo un corso militare durissimo, che dura alcuni mesi, nei quali viene anche tolto loro il telefono e possono comunicare soltanto via lettera come accadeva una volta. Qualcuno fa questa scelta, ma è comunque rischiosa, perché l’atleta può sempre venire chiamato per qualche missione. Infatti in questo caso la precedenza non viene data allo sport, come accade in Italia, viene prima la carriera militare. Quindi diciamo che la stragrande maggioranza degli atleti preferisce fare il college, gareggiare nel fondo e, una volta usciti, cercare degli sponsor per proseguire l’attività nel biathlon. Altri, i più benestanti, restano legati alle proprie famiglie, restano con i genitori fino a trent’anni, supportati da casa. Poi chi ottiene risultati in Coppa del Mondo riceve uno stipendio dal Comitato Olimpico statunitense, ma in questo caso devi confermarti ogni stagione, altrimenti può esserti tagliato o non riconfermato. Insomma è un sistema diverso e difficile, non so quanti europei farebbero questa vita per il biathlon».

Senza dimenticare che i nazionali statunitensi impegnati in Coppa del Mondo restano lontano da casa per tanti mesi.
«Diciamo che solitamente ci si vede già a fine ottobre per l’ultimo raduno statunitense, quindi si parte per l’Europa e ritornano a casa direttamente a stagione terminata a fine marzo, se come quest’anno non sono previste tappe negli USA. Per tanti è dura, perché restano lontano per sei mesi, hanno amici, parenti e rispettivi fidanzati che non vedono per un lungo periodo. A volte, fortunatamente, qualcuno viene in Europa a trovarli, specie nel periodo natalizio ne approfittano spesso per fare una vacanza, che è comunque sempre legata all’allenamento, in quanto sono in piena stagione. Non credo sia facile fare questa scelta di vita. Addirittura gli atleti che gareggiano in IBU Cup si pagano l’aereo, l’albergo e i colpi».

Gli atleti statunitensi devono avere una grandissima passione per fare tutti questi sacrifici.
«Si e questo da una parte è un grande vantaggio. Da allenatore puoi contare sul fatto che hanno una grandissima passione, non lo fanno per soldi o altro, ma investono tutto sul loro grande amore per il biathlon. Poi per tutti è prezioso l’obiettivo olimpico, in quanto negli USA è una referenza importante, quando cerchi lavoro, poter inserire la frase “I was an olympian” nel tuo curriculum. Quando hai gente così appassionata e determinata, se gli dici di allenarsi per tre ore consecutive, non fiata nessuno. Anzi, la prima cosa che mi dicono gli atleti quando ci vediamo è “cosa vuoi che faccia?”. Si affidano a me. È una cosa bella ma che ti dà anche molta responsabilità, in quanto loro ti danno fiducia ma tu devi ripagarla con i risultati. Non chiedono di vincere la Coppa del Mondo, ma di raggiungere il proprio massimo. Magari qualcuno punta a qualcosa di più, ma c’è anche chi vuole migliorare da ottantesimo a sessantesimo. Insomma non abbiamo tanti atleti, non possiamo avere le ambizioni di altre nazioni, ma è bello lavorare qui perché trovi tutte persone appassionate e motivate».

Dovendo passare tanto tempo assieme durante la stagione, l’ambiente che si crea all’interno del gruppo diventa fondamentale.
«Certo per noi tutti è importantissimo creare una bella atmosfera all’interno del gruppo, staff tecnico compreso, che si basi sul rispetto, per me uno dei valori più importanti, come ripeto spesso alle ragazze. Il valore umano è fondamentale dappertutto e in ogni ambito lavorativo, figuriamoci se vivi con delle persone per mesi, dividi con loro la camera restando sempre a stretto contatto. Ci vuole pazienza e rispetto. In ogni caso, durante la stagione hanno qualche giorno di vacanza, possono staccare ogni tanto, magari nel corso delle feste natalizie o dopo il Mondiale. Quest’anno, per esempio Susan (Dunklee, ndr) è andata a Venezia, qualcun’altra a Trieste. A tutte loro piace curiosare, scoprire qualcosa di nuovo in Europa»

* Domani la seconda parte dell’intervista, nella quale Auchentaller parlerà della sua squadra e analizzerà i risultati dell’ultima stagione.

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