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Storia del Fondo maschile – Cap.6

Le medaglie dagli anni ’80 a Salt Lake City (2002)

 

Dagli anni ’80 il fondo, in Italia, fa un notevole e incredibile salto di qualità. Comincia la rincorsa sul piano agonistico fino a quel momento mortificato da magre spaventose, si diffonde come fenomeno di massa e fa anche mercato, consentendo la nascita di nuove aziende e la crescita di altre che già operavano nel settore. Inoltre si assiste all’apertura di centri fondo che viene ad affiancarsi ad una crescente disponibilità di piste la cui manutenzione, da saltuaria com’era, diventa ordinaria. Sono gli Enti locali o le Aziende di soggiorno ad assumersi iniziative e relative spese poiché anche il fondo viene finalmente considerato alla stregua dello sci alpino dal punto di vista del possibile richiamo turistico. Chi vuole far fondo, insomma, adesso sa dove andare con la certezza di trovare quello che si aspetta. Paga qualcosa, ma ha la garanzia di una pista ben preparata e magari di un locale dove sciolinare e cambiarsi al caldo.

Per quanto riguarda il rilancio agonistico, avviene in concomitanza con l’entrata in scena del prof. Conconi (nella foto) nell’ambito della nazionale italiana in vista dei Mondiali di Oslo. Uno scienziato che viene a collaborare con un mondo di praticoni. Allo sci di fondo il cattedratico di Ferrara inizialmente porta quella metodologia di preparazione che l’atletica stava attuando da tempo e che i tecnici del fondo fino a quel momento avevano rifiutato sostenendo di non aver nulla da imparare da questa disciplina sportiva. Ambiente e problematiche di genere troppo diverso, si diceva, per poterne trarre integrazione e vantaggi. Come allenatore era stato chiamato dalla Finlandia Ville Sadehariu (nella foto mentre incita Vanzetta), allenatore della nazionale giovanile di quel paese, nella convinzione che avrebbe fatto fare al fondo italiano il tanto auspicato salto di qualità. Con il prof. Conconi e con il test da lui inventato i nostri atleti  vengono innanzitutto messi in condizione di poter valutare il loro stato di forma e i limiti di soglia sui quali impostare la preparazione per poter migliorare i propri risultati. Si comincia ad adottare il frequenzimetro per tenere sotto controllo le pulsazioni nei vari momenti dell’allenamento e con i test, effettuati per la prima volta in Val Velon dai tecnici della squadra affiancati da assistenti di Conconi, si ha un primo quadro clinico-fisiologico degli atleti effettuato direttamente sul campo e con la tecnica specifica dello sci piuttosto che con macchine che imitano solo lo sforzo. Il passo successivo è la sperimentazione della tecnica dell’autotrasfusione, cioè la reinfusione della parte corpuscolare del proprio sangue, prelevato a più riprese e conservato in frezeer speciali, che l’atletica leggera attuava già da tempo. Un trattamento “naturale”, allora non considerato dopante, che consente di innalzare i parametri di ematocrito ed emaglobina quando il maggior apporto di ossigeno nei muscoli si rende più necessario e opportuno, e cioè in occasione degli appuntamenti che contano. Mondiali e Olimpiadi.

 Ed è appunto sulle piste di Oslo-Holmenkollen, nel 1982, che i risultati dei nostri fondisti escono dal trend negativo che aveva caratterizzato il decennio precedente. Il podio è ancora lontano ma il divario con i primi è diminuito e qualcuno entra nei dieci. E’ il caso di Giuseppe Ploner  8° nella 15 km, posizione raggiunta anche da Maurilio De Zolt nella 50 km , mentre Giorgio Vanzetta è 9° nella 30 km. In questa occasione Manuela Di Centa (nella foto durante la 10 km), del tutto estranea alla manipolazione, arriva 8a nella 5 km. E’ il miglior risultato ottenuto da una fondista italiana, che non era stata neppure selezionata per il Mondiale. Il D.A. Mario Azittà, che non la riteneva all’altezza, è costretto a mandarla in Norvegia su intervento del presidente Gattai; alla Di Centa viene affiancata Maria Canins. Solo così direttore agonistico e tecnici, miopi come sempre, scoprono finalmente di poter disporre di una grande atleta, dalla potenzialità ancora tutta da scoprire, sulla quale ricostruire quel fondo femminile mai decollato sul piano internazionale.

Ci vuole qualche anno perché la manipolazione del sangue dia i frutti sperati; sono ancora molti i dubbi e le perplessità che solleva in un mondo piuttosto refrattario di fronte alle innovazioni qual è quello del fondo italiano. Se non le considera “stregonerie”, poco ci manca. Resta sempre qualche remora di ordine più che altro psicologico. Occorre fare opera di convinzione per far capire come l’apporto della scienza sia determinante per ottenere quel salto di qualità che, obiettivamente, non sarebbe possibile con la sola preparazione fisico-organica  E che non fossimo ancora pronti lo dimostrano, nel 1984, le Olimpiadi di Seraievo che, con le tormente di neve umida, portano in evidenza gli svedesi Svan e Wassberg in campo maschile, e la finlandese Hamalainen che si assicura le tre medaglie d’oro delle gare individuali, mentre il migliore dei nostri , che hanno sempre patito condizioni del genere, è De Zolt, 9° tanto nella 15 che nella 30 km.

Ci vuole dunque del tempo per mettere a punto il meccanismo, ma già ai Mondiali di Seefeld, nel 1985, si registra l’esplosione di Maurilio De Zolt: è 3° davanti ad un sorprendentissimo Vanzetta superato solo nel finale della 15 km appannaggio di Harkonen, e 2° nella 50 km dominata da Gunde Svan, il “Cigno”. Ma è nella staffetta che si raccoglie il miglior risultato mai raggiunto da una squadra italiana: seconda dietro la Norvegia, in una gara che l’aveva addirittura vista in testa all’ultimo cambio. Una competizione entusiasmante, che per la prima volta ha dato le dimensioni delle potenzialità della nostra squadra in una prova in cui la capacità di correre sull’uomo e le tattiche di gara hanno un valore e un peso che supera quello della forza stessa degli atleti. Albarello che nella frazione di avvio lotta ad armi pari con i norvegesi, De Zolt, inopinatamente schierato in seconda frazione, che regge il confronto con Mikkelsplass, Vanzetta che si scatena, supera Holte e lancia Ploner con un buon vantaggio su Ulvang. Troppo forte, quest’ultimo, che raggiunge e stacca Ploner sull’ultima salita. Però alla fine siamo secondi, a 6″5, ma davanti alla Svezia che in ultima frazione schiera Svan, vincitore della 30 e della 50 km. In evidenza anche Guidina Dal Sasso, 8a nella 10 km e 14a nella 20 km.

E’ ai Mondiali di Oberstorf, due anni dopo, che arrivano anche le prime medaglie d’oro individuali. E’ Marco Albarello (foto a sinistra) a rompere il ghiaccio nella 15 km e lo imita De Zolt nella 50 km conclusiva dove Walder è 8°, mentre la staffetta è quinta. Posizione in cui, per la prima volta, si inserisce anche la formazione femminile che ha il suo elemento di punta in Guidina Dal Sasso, settima nella 20 km.

Nel 1988 in Canada, alle Olimpiadi di Calgary, è ancora De Zolt a mettersi in evidenza con la medaglia d’argento nella 50 km e il 6° posto nella 15 km. Ma nei primi 10 ormai c’è un posto fisso per Vanzetta e Albarello, e anche Polvara trova spazio fra i grandi. Continuità di risultati che inseriscono l’Italia in pianta stabile nell’élite del fondo, con tutte le premesse, che si avvereranno negli anni ’90, di diventare la terza grande potenza del fondo dietro gli inarrivabili norvegesi e, di volta in volta, svedesi, finlandesi o sovietici. In campo femminile ritorna in classifica (6a nella 20 km) Manuela Di Centa, che aveva lasciato la nazionale dopo Seraievo per una “bega” con il presidente Gattai e per il rifiuto a sottoporsi all’autotrasfusione, e fa la sua comparsa Stefania Belmondo, ancora junior. Un esordio confortato dal 19° posto nella 10 km.

Lahti, nel 1989, ribadisce la tradizione negativa per gli italiani, autori di prestazioni buone ma non eccezionali, comunque lontane dal podio. Albarello e De Zolt, entrambi settimi rispettivamente nella 30 e nella 50 km, sono la conferma di come certe nevi balorde continuino a penalizzarci, mentre la Di Centa, che pure soffre di un malanno alla tiroide che ne condizionerà le prestazioni per un paio d’anni,, torna a manifestare continuità di piazzamenti: 8a nella 10 km a tecnica classica, 7a nella 10 km a tecnica libera, 5a nella 30 km TL. L’ha rilanciata l’allenatore finlandese Jarmo Punkkinen (nella foto con De Zolt e il massaggiatore Raimo) che da qualche anno ha preso il posto del connazionale Sadehariu, e che è stato il solo a darle una mano quando, per i problemi alla tiroide, pensava di abbandonare definitivamente l’attività agonistica. Che abbia ancora tanto da esprimere lo confermerà negli anni seguenti, a cominciare dai Mondiali della Val di Fiemme. A Tesero, nel 1991, è medaglia di bronzo nella 5 km TC e nella 30 km TL, e si accende la grande rivalità con Stefania Belmondo (nella foto ai Premondiali 2002), che il terzo posto lo conquista nella 15 km TC, medaglie che si aggiungono all’incredibile argento nella  staffetta, dietro l’Unione Sovietica. Bronzo anche in campo maschile, con De Zolt nella 50 km, e quarto posto della staffetta. Un’unica medaglia maschile, ma tanti piazzamenti di rilievo nelle gare individuali in cui si mettono in evidenza gli svedesi Svan e Mogren, e i norvegesi Daehlie e Langli, primi anche in staffetta con Skanes e Ulvang.

Intanto in quegli anni ci si è resi conto che i periodi di preparazione specifica in altura,  la programmazione anche nei minimi particolari e l’autotrasfusione da sole non bastano più per mantenersi al livello dei nordici, che si sono già affidati a nuovi ritrovati; per cercare di batterli bisogna aspettare che denuncino qualche flessione. Si rende dunque necessario un nuovo balzo in avanti per un ulteriore salto di qualità. Con l’apporto della scienza, naturalmente. Come questo sia potuto avvenire lo si evince dagli atti del processo Conconi, riportati in più di un sito Internet che si occupa di ciclismo. Particolarmente istruttiva la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal P.M. Soprani per l’attuale rettore dell’Università di Ferrara e i suoi più stretti collaboratori del tempo. Vi si fa riferimento ad un “file” scoperto in un PC che, accanto a campioni delle due ruote come Pantani, Bugno, Fondriest e tanti altri, riporta precisi riferimenti ai nostri campioni del fondo che dagli anni ’90 in poi hanno fatto incetta di medaglie. L’ematocrito che, nel giro di poche settimane, passa da un valore normale e fisiologico di 39-40 del mese di novembre a punte di 55 e oltre a fine gennaio-primi di febbraio, nell’imminenza dei Mondiali o delle Olimpiadi. Valori ben al di là dei limiti consentiti dalla normativa antidoping internazionale e dallo specifico protocollo “Io non rischio la salute” del CONI.

Una crescita abnorme, che non trova una spiegazione né logica né “naturale” che non sia riconducibile ad un apporto esterno piuttosto che ad una produzione endogena. Infatti, all’autotrasfusione che implica il rischio di epatiti, come è capitato a qualche nostro fondista che ha rischiato anche la pelle, si è sostituita l’Epo, termine con cui si indica l’eritropoietina, una proteina che viene prodotta anche dall’organismo e che ha il potere di aumentare la produzione di globuli rossi. Usata normalmente per i dializzati, ha trovato il mercato più redditizio e generalizzato fra i ciclisti, ai quali si sono accodati fondisti e maratoneti . E’ così che, nel 1992, alle Olimpiadi di Albertville, scoppiano i fuochi artificiali, anche se non tutti i nostri atleti sono coinvolti nell’operazione. Di certo non Stefania Belmondo, medaglia d’oro nella 30 km TL e argento nell’inseguimento, bronzo nella staffetta femminile (con Vanzetta, Di Centa, Paruzzi). Albarello è 2° nella 10 km TC, prima prova dell’inseguimento, oltre che 4° nella 30 km TC e nell’inseguimento, dove Giorgio Vanzetta si insedia al 3° posto. Le brillanti prestazioni di entrambe le squadre, maschile e femminile, nel loro complesso, fanno guardare ad un futuro ricco di risultati altrettanto prestigiosi. Due fuoriclasse e delle buone comprimarie in campo femminile, e tanti atleti in grado di salire sul podio in quello maschile. Per l’avvenire siamo messi bene, con rincalzi validi che possono subentrare in ogni momento agli atleti più anziani. Il cambio generazionale è assicurato, almeno a breve e medio termine. In più abbiamo la possibilità di raggiungere il massimo della condizione al momento giusto. La nazionale inoltre ha in Sandro Vanoi, che subentra a Mario Azittà, il nuovo direttore agonistico (foto a sinistra).

La conferma già ai Mondiali di Falun, nel 1993, dove le medaglie e i piazzamenti di rilievo si susseguono. Silvio Fauner è 3° nell’inseguimento, la staffetta (De Zolt, Albarello, Vanzetta e Fauner) argento, mentre Albarello e Polvara restano ai piedi del podio nella 30 km TC e nella 50 km TL. Fra le donne oro della Belmondo in una volata a tre con Lazutina e Yegorova, e Di Centa appena dietro, con bis di Stefania nella 30 km TL con Di Centa al secondo posto, e staffetta (Vanzetta, Di Centa, Paruzzi, Belmondo) ancora argento.

E’ sulle nevi di Lillehammer, nelle Olimpiadi 1994, che il nostro fondo, maschile e femminile, raggiunge l’apice. Per la prima volta una squadra che non fosse nordica o sovietica vince la staffetta, ed è quella italiana. Un successo allo sprint, di Fauner davanti a Daehlie, proprio davanti a decine di migliaia di compatrioti ammutoliti di colpo. Per la Norvegia questa sconfitta è come un lutto nazionale. All’era delle vittorie individuali aveva già messo fine Nones nel 1968, con la medaglia d’oro della 30 km di Grenoble, adesso si è conclusa anche l’era della supremazia di squadra. Da questo momento, anche nelle due successive Olimpadi, la staffetta diverrà una questione privata fra Italia e Norvegia, con altrettante conclusioni in volata ma a risultato invertito. Altre due medaglie di bronzo, Albarello nella 10 km TC e Fauner nel successivo inseguimento, ribadiscono la forza e la continuità di risultati della squadra e dei nostri atleti. E confermano pure che Manuela Di Centa, che sembra aver risolto i suoi problemi della tiroide con opportune cure, ha raggiunto il culmine della sua carriera. Vince la 15 km TL e la 30 km TC, è seconda nella 5 km TC e nell’inseguimento, oltre che terza con la staffetta (con Vanzetta, Paruzzi e Belmondo). Stefania, da parte sua, al bronzo della staffetta unisce quello dell’inseguimento.

L’anno successivo, ai Mondiali di Thunder Bay, viene il gran momento di Silvio Fauner. Dopo il secondo posto nell’inseguimento, dietro Smirnov, battendo in volata Isometsa, arriva l’oro della 50 km e il bronzo nella staffetta (con Valbusa, Albarello e Maj). Fra le donne è ancora Di Centa ad emergere, bronzo nella 5 km TC e argento nella 30 km TL, che avrebbe potuto vincere senza una malaugurata caduta in discesa che dà via libera alla Vialbe. Per Manuela è l’ultima grande prestazione; questo Mondiale, che   Stefania Belmondo ha concluso anzitempo per la sofferenza che le procura un malanno congenito ad un piede che dovrà essere operato, è l’inizio della fine di una prestigiosa carriera.

Di questi grandi risultati ottenuti a Thunder Bay, il merito va equamente spartito fra gli atleti che ci hanno messo tutta la loro buona volontà, e i tecnici per la genialità di alcune trovate messe in atto per riuscire a  disporre di sci veloci su una neve sporca a causa dello smog delle fabbriche vicine che, attaccandosi alla soletta, ne rallenta progressivamente la scorrevolezza. Fra queste trovate, al di là di scioline e paraffine adeguate, va segnalato un prodotto per la pulizia dei pavimenti acquistato in un supermercato. Ne vengono imbevuti stracci disposti come un tappetino lungo la pista, in postazioni davanti alle quali i nostri atleti possano pulire le solette facendole passare su questa specie di solvente che elimina, almeno momentaneamente, lo sporco accumulato. Soluzione copiata in seguito dai tecnici delle altre squadre, ma che sta a confermare la tipica capacità di improvvisazione e genialità italica nelle situazioni più disparate (e disperate).

Il fondo italiano ormai è lanciato: alle medaglie olimpiche e mondiali si aggiungono i successi di Coppa malgrado la concorrenza si faccia di anno in anno più spietata. Infatti la scissione dell’Unione Sovietica in tanti Stati indipendenti aumenta le rappresentative nazionali: se prima i sovietici potevano presentare 4 atleti per gara, ora ne schierano almeno una dozzina altrettanto forti, suddivisi in varie squadre, mentre altri trovano naturalizzazione in altre nazioni. Come Botvinov, che viene a rafforzare un’Austria che si è messa sulle nostre tracce quanto a manipolazioni  del sangue.

Le prime avvisaglie di come siano cambiate le classifiche dopo questo smembramento dell’ex Unione Sovietica si avvertono già nel 1997, ai Mondiali di Trondheim. In Norvegia, al di là dell’aumentata concorrenza, la nostra squadra registra però una momentanea flessione in campo maschile, dove solo la medaglia di bronzo della staffetta viene a nobilitare i due quinti posti ottenuti da Valbusa nella 15 km TL e nella 30 km TC, e il quarto di Piller Cottrer nella 30 km. Prestazioni pur sempre eccellenti, che lasciano tuttavia dell’amaro in bocca dopo le tante medaglie del recente passato. A risollevare lo spirito di squadra provvedono le quattro medaglie d’argento ottenute da Stefania Belmondo nelle quattro gare individuali, preceduta sempre dalla russa Vialbe. Nell’inseguimento addirittura di soli 4/100 di secondo: c’è voluto il fotofinish per individuare la vincitrice della volata. Una “sfiga” inconcepibile per la nostra Stefania, che di scherzi del genere ne ha patiti parecchi nella sua lunga, inimitabile carriera. Battuta di strettissima misura, come in questo caso, oppure da atlete risultate poi dopate. Qui, a Trondheim, un brutto scherzo glielo ha combinato anche la Di Centa. Stranamente schierata nella frazione finale della staffetta, pur godendo di un vantaggio di 8″, Manuela si è fatta raggiungere e superare sul rettilineo di arrivo dalla quasi sconosciuta finlandese Salonen, senza neppure tentare una reazione. Bronzo quindi alla Finlandia dietro Russia e Norvegia, fra la giustificata esasperazione delle azzurre (Paruzzi, Belmondo e Valbusa) che avevano sputato l’anima per conservare la posizione e si sono trovate senza medaglia.

Il 1998 è l’anno delle Olimpiadi di Nagano. La nostra squadra ci arriva ben preparata e forte dell’esperienza delle gare preolimpiche dell’anno precedente che avevano permesso di testare nuove scioline, preziose su nevi  abitualmente difficili come quelle giapponesi. Si parte subito bene, con il terzo posto di Fauner nella 30 km TC, ma già nella 10 km TC per la combinata si riscontra , a sorpresa, l’inserimento dell’austriaco Gandler al 2° posto, imitato a chiusura dei Giochi dal  3° posto del connazionale Hoffman nella 50 km TL, dove Valbusa finisce 5°. Medaglie che dimostrano che qualcosa è cambiato appena al di là dei nostri confini. Da parte nostra, purtroppo, subiamo la rivincita norvegese nella staffetta. Scottata a Lillehammer, la Norvegia evita di schierare Daehlie in ultima frazione contro Fauner, e lo sostituisce con Alsgaard. L’epilogo è identico, in volata, solo che stavolta è la squadra norvegese ad avere la meglio per un paio di metri. Medaglia di bronzo anche per le ragazze. Dopo tre frazioni quasi disastrose, la conquista Stefania Belmondo con una rimonta strabiliante che le consente di recuperare ben 6 posizioni. Uno sforzo che paga due giorni dopo nella 30 km TL, dove viene preceduta di 10″ dalla russa Tchepalova.

Che gli austriaci abbiano imparato la lezione e si siano adeguati anch’essi in fretta a quel sistema che ormai ha fatto scuola, lo confermano i successivi Campionati Mondiali, in programma nell’ultima decade del febbraio 1999 a Ramsau. Sulle nevi di casa, accanto ai soliti Gandler, Stadlober e Hoffman, si schiera Mikhail Botvinov, naturalizzato austriaco. Fondamentale nella staffetta, l’ex sovietico contiene le sparate di Daehlie e lancia Hoffman in ultima frazione alla pari con Alsgaard. Arrivo in volata e il novello austriaco ha la meglio per 2/10 di secondo. La nostra squadra (Di Centa, Valbusa, Maj e Fauner) è terza, ad un minuto e mezzo. Questo bronzo era stato preceduto dal terzo posto di Valbusa nell’inseguimento, prima meritatissima medaglia individuale del forestale veronese. Indubbiamente migliore il bilancio della squadra femminile, che può contare sulle due medaglie d’oro di Stefania Belmondo nella 15 km TL e nell’inseguimento, e sull’argento della staffetta (Valbusa, Paruzzi, Confortola, Belmondo) ormai orfana della Di Centa. Manuela ha chiuso la carriera agonistica alle Olimpiadi e ne ha cominciata un’altra nel consesso del CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, eletta dagli atleti in loro rappresentanza. Sarebbe stata poi riconfermata nel 2002, dopo Salt Lake City, per un periodo di 8 anni.

Le fenomenali prestazioni degli austriaci a Ramsau sono l’implicita conferma che il doping, in questo caso l’Epo, non ha confini. Finora, però, i sospetti non sono mai stati accompagnati da prove. A cascare per primi nella rete sono i finlandesi, nel 2001, ai Mondiali di Lahti. Corrono in casa, vogliono stravincere. Si sono allenati in altura, nel tunnel pressurizzato, vivono e dormono in camere ipobariche per assimilare, anche durante il riposo, effetti analoghi a quelli che si ottengono con il soggiorno alle alte quote. Si fanno pescare a un controllo a causa dell’Hes, il plasma expander che doveva servire a mascherare l’Epo di cui evidentemente facevano uso. Isometsa, secondo classificato nell’inseguimento, è il primo ad essere squalificato; dopo la staffetta, che avevano vinto alla grande, per lo stesso motivo, vengono esclusi dai Mondiali anche Kirvesniemi , Immonen e Myllilae. Doping anche  in campo femminile, e sempre nella staffetta e ancora per uso di Hes: ad essere sorprese le finlandesi Kuituinen e Jauho, terze arrivate. Ne trae vantaggio l’Italia che dal quarto sale al terzo posto e si guadagna il bronzo: la medaglia, però, sarà consegnata a Paruzzi, Valbusa, Paluselli e Belmondo solo a parecchie settimane di distanza. Da notare che la Kuituinen aveva vinto l’inseguimento, ma essendo risultata positiva solo in seguito, ha mantenuto la medaglia d’oro. In caso di squalifica al terzo posto si sarebbe potuta inserirsi Belmondo, arrivata quarta. Bilancio negativo, in complesso, per la nazionale italiana. Staffetta in extremis e Belmondo salvano la squadra femminile, mentre quella maschile può vantare solo l’argento di Zorzi, battuto da Hetland  nell’inedita specialità dello sprint. Per il resto un mondiale da dimenticare. Lahti è, per tradizione, un ambiente ostile ai colori italiani. Qui alla solita neve balorda si sono aggiunti qualche errore – di sciolinatura o di scelta degli sci di Valbusa da parte dei tecnici – che ha messo fuori gara la staffetta fin dalla prima frazione, ed un freddo terribile che ha annichilito le speranze di Piller Cottrer e Valbusa che nella 50 km erano ancora in zona medaglia a pochi km dall’arrivo. A seguito del freddo, non viene disputata la 30 km TL femminile, la gara su cui Stefania contava per una nuova medaglia.

Mondiali amari, dunque, per gli azzurri. Si cerca di addossarne la responsabilità unicamente su Alessandro Vanoi, che ha sicuramente delle colpe ma non è l’unico. Vanoi è direttore agonistico del fondo maschile dal 1992 e anche del fondo femminile dal 1996, dopo che Camillo Onesti (foto a destra )ha lasciato l’incarico. C’è chi chiede la sua testa e ha già pronto il sostituto, Marco Albarello, uno dei grandi elettori di Gaetano Coppi, il nuovo presidente che in Fisi ha sostituito il generale Valentino ereditando una situazione pesantissima sotto il profilo economico a seguito della riduzione dei finanziamenti da parte del CONI. Vanoi, non va dimenticato, è il primo artefice delle tante medaglie che si sono succedute in questi anni. Maestro dello sport proveniente dal pugilato, si è fatto tutta la gavetta, da preparatore atletico delle squadre minori a direttore agonistico del fondo. Furbo, intelligente, dotato di un buon carisma e abile nei rapporti con i media, ha saputo emergere in un compito obiettivamente difficile, dove altri sono invece naufragati, accumulando esperienza e conoscenze e guadagnando credibilità  e stima anche in campo internazionale. Anche nella FIS, dove gli italiani hanno sempre goduto di scarso credito, Qualità che, pur con tutti i suoi difetti, ma con gli accorgimenti del caso, gli hanno consentito di portare il fondo italiano a vertici che anche nelle previsioni più rosee nessuno si sarebbe neppure sognato di ipotizzare. Ha intuito per tempo che l’introduzione dello skating, più congeniale ai nostri atleti che non la tecnica classica, avrebbe rivoluzionato il fondo (e le classifiche) e l’ha anticipata, facendo trovare la nostra nazionale più preparata al momento dell’introduzione della tecnica libera nelle gare di Coppa del Mondo, delle Olimpiadi e dei Mondiali. Sostituirlo dopo un Mondiale mancato, alla vigilia delle Olimpiadi di Salt Lake City, sarebbe risultato non solo impopolare, ma anche “politicamente” scorretto e traumatico per gli atleti, considerato che la maggior parte della squadra era con lui piuttosto che dalla parte di Albarello. Gli è quindi stata concessa la “chance” olimpica, che naturalmente non ha fallito, poiché la trasferta negli USA era stata preparata già dalle gare preolimpiche del febbraio 1991. Un impegno che gli scandinavi hanno disertato, pagando poi pesantemente lo scotto, ma che ha consentito ai nostri di testare con un anno di anticipo l’adattamento di nuove scioline alle particolari nevi dell’Utah, che soffrono dei forti sbalzi di temperatura dovuti alla vicinanza del deserto, e gli effetti dell’altura sugli atleti in gare su percorsi eccezionalmente duri, altamente tecnici e privi di vegetazione.

Allo Skipass di Modena, in tempi non sospetti, esprimendo un suo pronostico, Vanoi (nella foto con tre giornalisti) ha parlato della possibilità di 3-4 medaglie fra l’incredulità generale. Ne sono arrivate 5: due dagli uomini (argento in staffetta) e bronzo di Zorzi nella sprint, e tre dalle donne (oro di Belmondo nella 15 km TL con partenza di massa e di Paruzzi nella 30 km TC, argento di  Belmondo in questa stessa gara). Al di là delle medaglie italiane, queste sono state però le Olimpiadi del doping, per quanto in apertura il nuovo presidente del CIO, il belga Rogge, avesse affermato con sicumera che sarebbero stati i Giochi più puliti della storia. Invece sono fioccate le squalifiche poiché i controlli incrociati sangue-urina hanno portato all’accertamento del ricorso alla Nesp, un nuovo tipo di proteina che stimola la produzione dei globuli rossi, più potente e duratura dell’Epo e, rispetto a questa, più difficile da scoprire. Si sospettava che ne avessero fatto uso i ciclisti al Giro di Spagna, corso a medie incredibili, ed è stata trovata ai fondisti proprio nell’ultimo giorno di gara. A essere riscontrati dopati il tedesco naturalizzato spagnolo Johann Muehlegg e le sovietiche Romanova, Danilova, Lazutina. Per loro è scattata la squalifica e, di conseguenza, la perdita delle medaglie vinte nelle gare incriminate: l’oro della 50 km TC per Muehlegg che si era già imposto, stracciando letteralmente gli avversari, nella 30 km TL e nell’inseguimento, l’oro della 30 km TC e l’argento dell’inseguimento per la Lazutina, l’oro dell’inseguimento della Danilova. La squalifica della Lazutina ha ovviamente portato alla medaglia d’oro Gabriella Paruzzi e a quella d’argento Stefania Belmondo, arrivate seconda e terza dietro la russa. E a queste medaglie si sarebbe potuto aggiungere tranquillamente l’oro della staffetta, che era alla nostra portata dopo il ritiro dello squadrone russo, se una malaugurata caduta della Longa e le successive frazioni della Paruzzi e della Valbusa, inferiori alle attese, non avessero accumulato un ritardo impossibile da colmare anche per la Belmondo. Sesto posto, quando al terzo si è classificata la squadra svizzera che neppure avrebbe dovuto partecipare alle Olimpiadi, mentre l’oro è andato alla Germania, che le nostre ragazze hanno sempre battuto, e l’argento ad una Norvegia, superata in volata, inferiore al suo standard abituale.

Spettacolare come sempre la staffetta maschile, che si è risolta allo sprint fra Alsgaard e Zorzi, con il norvegese in rimonta sull’azzurro che aveva attaccato da lontano. Un crescendo stupendo per la nostra formazione che ha schierato Maj in prima frazione, Di Centa in seconda e Piller Cottrer in terza. Alla fine 3/10 di secondo hanno diviso Alsgaard e Zorzi. Complessivamente, nelle ultime tre Olimpiadi che hanno visto la squadra azzurra concludere la staffetta in volata con quella norvegese, solo 1/10 di secondo a favore della Norvegia divide le due formazioni.

Per concludere, non si può dimenticare quanto di buono hanno fatto i tecnici nella preparazione degli sci: per quanto il tempo sia ripetutamente cambiato, non hanno sbagliato praticamente nulla. Anzi, l’intuizione di Aldo Fauner che, in quelle condizioni di neve e temperatura  ha preferito “fare il pelo” sulla soletta degli sci di Paruzzi e Belmondo piuttosto che ricorrere alla sciolina, ha determinato il risultato della 30 km: si aspettavano le norvegesi e sono invece salite alla ribalta le due azzurre. Meglio di così proprio non poteva andare. E’ mancata solo una medaglia individuale da parte di Piller Cottrer, 5° nella 30 km TL e 7° nell’inseguimento, le due gare falsate dallo strapotere di Muehlegg, innescato dal doping. Pietro, che è risultato determinante in staffetta, avrà comunque tempo e modo di rifarsi nei prossimi appuntamenti, a cominciare dai prossimi Mondiali.

In Val di Fiemme la squadra azzurra si presenterà sicuramente rinnovata. Nella direzione agonistica, innanzitutto, affidata a Marco Albarello, che a Tesero mette in gioco la sua credibilità. Subentra a Vanoi che, con 26 medaglie all’attivo, passa dalla direzione agonistica del fondo al “management” dell’intero settore nordico, biathlon compreso, e assume l’incarico di coordinatore di questo settore anche nel Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Torino 2006. Con Albarello cambia anche l’assetto tecnico, con l’ingresso di nuovi allenatori e skimen e l’uscita di scena di altri. Quanto alla squadra, l’intenzione è di dare spazio ai giovani di valore che non mancano, senza per questo accantonare i più anziani come Fauner e Valbusa, che il posto però devono guadagnarselo a suon di risultati.

Di certo qualcosa dovrà cambiare radicalmente per quanto riguarda la tecnica classica, che era e resta il punto debole della nazionale e che, almeno ufficialmente, costituisce il motivo principale per cui Coppi ha sostituito Vanoi con Albarello (a destra nella foto, con Carlo Crestati e il telecronista Bragagna). Tranne che in staffetta, dove la corsa sull’uomo stimola anche chi è magari debole di carattere, nelle gare individuali non abbiamo specialisti in grado di competere ad armi pari con i nordici. C’è dunque parecchio da fare in questo campo e l’esperienza di Albarello, che in tecnica classica ha ottenuto le sue medaglie, può risultare preziosa. Si dovranno inevitabilmente cambiare anche certe impostazioni della preparazione, specializzando gli atleti sulla distanze, come si fa nell’atletica leggera. Per quanto corsa e sci di fondo si svolgano su terreni diversi e nello sci la tecnica sia più fondamentale che non l’assetto nella corsa, la fisiologia ha parametri identici dai quali il fondo non può esimersi. Chi ha doti velocistiche le deve affinare senza pensare troppo alle lunghe distanze, mentre deve muoversi in senso contrario chi ha doti più specifiche di fondo. Il “tuttofare” nello sport moderno è un ibrido che ha sbocchi solo parziali. In più si deve potenziare la forza di braccia che, nel fondo e con le piste attuali, è determinante quanto la perfezione del gesto tecnico. Da quando in squadra non c’è più gente abituata al duro lavoro dei boschi, la forza ha sempre costituito un handicap che non si è riusciti ad eliminare del tutto. Serve dunque un lavoro specifico: tecnici specializzati e palestre non mancano per poter recuperare il tempo perduto. 

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