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Sci di fondo

Pietro Piller Cottrer: “La vittoria di Oberstdorf ha cambiato la mia carriera, perché raggiunsi la maturità”

Lo chiamavano “caterpiller”, per la forza con cui riusciva a stroncare gli avversari e fino all’età di 38 anni ha partecipato alla Coppa del Mondo ottenendo podi e vittorie. Pietro Piller Cottrer, però, non è soltanto il grande atleta che ha regalato tante soddisfazioni allo sci di fondo italiano, ma anche l’innamorato di questo sport che vuole trasmettere le proprie conoscenze agli atleti più giovani, per restituire quanto ricevuto dallo sci di fondo. Caterpiller si è raccontato a Fondoitalia in questa interessante intervista.                                      
Buongiorno Pietro Piller Cottrer, come si è avvicinato allo sci di fondo?
«Essendo nato in montagna (Sappada ndr) è stata quasi una cosa naturale, anche se avevo iniziato facendo lo sci alpino, nel quale però ero troppo spericolato. Così mio papà decise di togliermi gli sci da discesa e infilarmi quelli di fondo. All’inizio rimasi molto deluso, mi feci grandi pianti, poi mi appassionai, capii di essere bravo e ora posso solo ringraziarlo per la scelta da lui fatta. Inoltre nella mia zona c’erano grandi atleti di fondo, che per me erano degli esempi. Maurilio De Zolt era il mio idolo quando ero giovanissimo, anche se non ho avuto la fortuna di stare in squadra con lui, perché entrai in nazionale la stagione successiva al suo ritiro. Silvio Fauner era invece il mio punto di riferimento, perché aveva sei anni più di me, era un grande campione e poteva insegnarmi molto».  
Ha esordito in Coppa del Mondo pochi giorni prima di compiere 20 anni e solo due anni dopo ha vinto la fantastica 50km di Holmenkollen in Norvegia.
«Forse è stata la vittoria più bella della mia carriera, perché ha avuto un sapore diverso rispetto a qualsiasi altro successo, dal momento che avevo solo 22 anni, ero alla mia prima vittoria in Coppa del Mondo, una cosa che era lontana dalla mia testa. La gara di Holmenkollen poi era mitica, perché all’epoca il giro era di ben 25 chilometri, quindi quando passavi sul traguardo al primo passaggio, dovevi pensare bene se andare avanti o fermarti, perché se andavi in crisi, dovevi comunque arrivare alla fine. Quella fu l’ultima edizione in cui la gara si svolse sul percorso da 25 chilometri, perché dall’anno successivo questa grande classica fu snaturata, per il dolore degli scandinavi e di tutti noi appassionati. Oggi purtroppo si svolge su tre giri da 16,7 chilometri, che non è certo la stessa cosa. Insomma, la mia fu una vittoria storica per questo motivo, ma anche perché nessun italiano aveva compiuto questa impresa prima di me. Al termine della gara ebbi anche il privilegio di stringere la mano al Re di Norvegia, che per prassi incontra il vincitore di questa gara».  
Dopo una vittoria del genere ti presentasti alle Olimpiadi di Nagano con grandi prospettive.
«Purtroppo fu un’esperienza sfortunata. Per le Olimpiadi giapponesi mi ero preparato soltanto nella 50 chilometri, perché ero molto giovane e nelle altre gare c’erano atleti più grandi e più forti di me. Alla partenza della gara avevo davanti a me Fauner e Pozzi, che raggiunsi presto e formammo così un trenino tutto italiano, che avrebbe potuto guidarmi all’oro e far ottenere un ottimo risultato anche a loro. Purtroppo però accadde l’imprevedibile: la neve era marcia e quando arrivai in un punto di discesa veloce, persi il controllo e finii fuori pista, restando impigliato tra le reti. Passarono dei minuti interminabili prima che riuscissi a rientrare, e lì sono praticamente finiti i miei sogni di arrivare a medaglia. Portai comunque a termine la prova, chiudendo sedicesimo. Nella mia carriera non c’è stata solo questa delusione, ma penso di aver imparato tanto da questi aspetti negativi e dalle sconfitte, che mi sono servite e mi hanno successivamente ripagato».  
Lei ha vinto prestissimo quella corsa in Norvegia, poi ci ha messo cinque anni per tornare al successo in Coppa del Mondo. Come mai?
«Forse aver ottenuto una vittoria così presto, mi ha caricato di responsabilità per le quali non ero ancora preparato, così ci è voluto un po’ di tempo prima che riuscissi a riassestarmi. Dovevo raggiungere quella maturazione agonistica che è fondamentale in uno sport di durata. Una volta ottenuta questa, sono riuscito a essere più sereno e consapevole dei miei mezzi».  
Qual è stato il momento che le ha fatto raggiungere questa maturazione?
«La bellissima vittoria di Oberstdorf nel 2005, quando conquistai l’oro nella 15km ai Mondiali. Da lì sono arrivati tanti successi, le medaglie ai Giochi di Torino del 2006, il terzo posto nella classifica generale della Coppa del Mondo nel 2008 e la vittoria della classifica di distanza l’anno successivo, nella quale sono stato il primo vincitore italiano. Ricordo che dovetti combattere fino all’ultima gara contro Cologna, che non voleva mollare nemmeno quella. Fu bellissimo il podio, perché vicino a me c’erano proprio lo svizzero e Northug, due fenomeni che sono molto più giovani di me».  
Ci racconti le emozioni avute nel giorno in cui insieme a Di Centa, Checchi e Zorzi vinse l’oro nella staffetta delle Olimpiadi di Torino nel 2006.
«Le Olimpiadi di Torino sono state l’apice della mia carriera e dei miei compagni di staffetta, perché siamo riusciti a conquistare qualcosa di impossibile da immaginare alla vigilia. Nelle mia carriera non ho mai vissuto un momento più emozionante rispetto a quello della premiazione in Piazza Castello a Torino con l’inno d’Italia».  
Com’è arrivato quell’oro? Come ci ha appena detto, non partivate favoriti.
«Noi quattro arrivammo ai Giochi Olimpici al top della condizione psicofisica, in un periodo molto buono. Pochi giorni prima arrivò anche la mia medaglia nella 30 chilometri, che mise fiducia a tutta la squadra. Quel giorno riuscimmo a fare qualcosa di veramente grande. Nei giorni precedenti si era instaurata in noi una consapevolezza inconscia, tanto che molti giornalisti ci hanno confidato che il giorno precedente la gara, quando ci presentammo in conferenza stampa con la tensione che si tagliava con un coltello, avevamo delle facce come non le avevano mai viste in precedenza e questo sembrava il preludio a qualcosa di epico».  
Nel 2010, a 36 anni, arrivò anche l’argento nella 15 chilometri delle Olimpiadi di Vancouver.
«Lì ero nel pieno della maturità o anche senilità almeno dal punto di vista della carriera sportiva. Sono molto orgoglioso di quel secondo posto, soprattutto perché il giorno precedente alla gara dichiarai che mi sentivo al cento per cento, che puntavo alla medaglia ma non ci sarebbe stato alcun rammarico se non fosse arrivata, perché già sapevo che avrei dato tutto e per battermi qualcuno doveva stare oltre il cento per cento. Cologna scese in pista oltre il cento per cento, ma quell’argento per me vale come una vittoria».  
Lasciato l’agonismo, è subito passato dall’altra parte ricoprendo il ruolo di tecnico. Come ha maturato questa scelta?
«Già quando gareggiavo osservavo i miei tecnici e provavo a immedesimarmi nel loro lavoro, mi immaginavo come avrei gestito delle determinate situazioni. Insomma, avevo iniziato già a ragionare su cosa avrei fatto una volta abbandonato l’agonismo e vista la mia vita, non mi vedevo in un ruolo diverso da questo, con il compito di trasmettere la mia esperienza ai giovani. Così, già prima di ritirarmi, avevo iniziato a svolgere diversi corsi da tecnico, con lo scopo di farmi trovare pronto nel giorno in cui avrei smesso. Se la federazione mi avesse chiamato avrei risposto presente e così è stato».  
Lei allena le Under 25: quale futuro prevede per il nostro sci di fondo, che negli ultimi anni ha raccolto pochi risultati positivi?
«Purtroppo abbiamo avuto un buco generazionale, ma finalmente si sta colmando. Le gesta di Pellegrino e De Fabiani fanno ben sperare, ma non dobbiamo fermarci a loro due, perché vogliamo una squadra vincente. In campo maschile, grazie a Pellegrino e De Fabiani, sarà più facile crescere per i più giovani, che non avranno subito l’obbligo di ottenere dei risultati. In campo femminile invece, dopo i ritiri di Paruzzi, Valbusa, Longa e Follis, le giovani non hanno delle campionesse che fanno da faro. Così queste ragazze, che sono tutte giovani, non possono mai permettersi di arrivare trentesime come sarebbe normale alla loro età. Per esempio quando ero giovane, avevo dei compagni di squadra fortissimi davanti a me, che con i loro successi, mi permettevano di arrivare trentesimo. Queste ragazze invece non hanno tali figure, così se una di loro arriva trentesima ed è la migliore delle italiane, la classifica risulta amara. Ma io invito tutti a lasciarle tranquille, perché il potenziale e la voglia ci sono, bisogna solo avere un attimo di pazienza, non si deve pretendere che un’atleta cresca in fretta e ottenga subito grandi risultati, perché con il tempo arriveranno. Sono molto fiducioso, anche perché due anni fa ai Mondiali Under 23 abbiamo ottenuto ottimi risultati e qualcosa questo vorrà dire. Vedo loro a questa età e penso a com’ero io all’epoca, molto meno professionista di loro».

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