Quando il Mondiale di Biathlon di Lenzerheide è ormai alle porte, la testata sportiva francese L’équipe ha dedicato a uno speciale alla disciplina con contenuti esclusivi tra cui un’intervista alla leggenda Ole Einar Bjoerndalen, che parla al giornale transalpino di quanto sia cambiato il biathlon norvegese dai suoi tempi fino ad oggi, e quali sono stati i meccanismi che hanno portato la Norvegia ad essere la nazione di riferimento, con un numero quasi spropositato di atleti competitivi.
“Penso che ci siamo costruiti passo dopo passo. Avevamo dei buoni talenti e soprattutto un sistema migliore. Abbiamo fatto la differenza sulla pianificazione degli allenamenti. Direi che il cambiamento è arrivato prima dei Giochi del ’98.” ha spiegato l’ex campione oggi 51enne.
Un altro fattore decisivo, secondo il nativo di Drammen è proprio il carattere combattivo dei norvegesi, a dispetto di quanto sosteneva l’autore dano-norvegese Aksel Sandemose, creatore della “legge di Jante”, secondo cui la cultura scandinava presenta uno schema comportamentale di gruppo che critica e ritrae negativamente, come indegne e inappropriate, le realizzazioni individuali e il successo del singolo.
“Siamo un Paese piccolo” afferma Bjoerndalen “ma con una popolazione che sa cosa vuole e che si impegna al massimo quando decide di porsi un obiettivo. Non pensiamo alle conseguenze che potrebbero verificarsi, possiamo correre rischi significativi. Possiamo abbandonare la scuola, gli studi o il lavoro molto presto per dedicarci alla carriera. Ad esempio io sono andato via di casa a 16 anni per andare a sciare a Geilo, a due ore e mezza da casa. A quel tempo ero uno dei migliori sciatori di fondo del mio Paese.“
Un lato negativo, ossia la mancanza di un sistema di supporto pubblico per gli atleti al di fuori della squadra Nazionale, come accade ad esempio in Italia con i corpi sportivi militari o di polizia, ma anche in Francia o in Germania, è paradossalmente ribaltato per creare una selezione positiva. “A differenza di altre nazioni, non siamo legati all’Esercito o alla Dogana, non esiste una soluzione di ripiego se intraprendiamo un progetto sportivo, non c’è sicurezza. Se le cose vanno male, è pericoloso. Questo ti fa davvero desiderare di avere successo, di fare tutto il possibile per riuscirci”.
Gli atleti, sono quindi costretti, in un certo senso, a trovare degli sponsor per finanziare la propria carriera, ma gli sponsor non durano mai per sempre, tutt’altro, e tutto può fermarsi da un giorno all’altro se mancano i risultati. Ecco perché è importante mantenere sempre alta l’asticella e dare sempre il 100%. D’altro canto, però, viene da chiedersi se questo sistema di concorrenza spietata sia in effetti sostenibile a lungo termine da parte degli atleti o c’è il rischio, che a lungo andare, questa insicurezza del proprio status non possa creare situazioni di burn-out oppure overtraining. Queste, però, sono domande a cui solo il tempo potrà rispondere, sempre che il facile ricambio di talenti permettere di effettuare una tale riflessione.