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Sci di fondo

Sci di fondo – Gianni Casadei ci racconta e ci fa scoprire la sua seconda famiglia, il Team Robinson Trentino

Prosegue il percorso di avvicinamento alla Marcialonga con le interviste alle figure chiave del Team Robinson Trentino, miglior team non scandinavo presente nel circuito delle Ski Classics. Dopo aver parlato con Bruno Debertolis, direttore tecnico, è la volta di Gianni Casadei, presidente del team
Iniziamo con una domanda di rito, quando e come nasce il Team Robinson Trentino?
«Il Team Robinson nasce fondamentalmente dalla passione per il fondo mia e di un grandissimo competente come Bruno Debertolis, che lo sci di fondo l’ha praticato sin da bambino fino ai risultati ottenuti con il gruppo sportivo delle Fiamme Gialle e al campionato del mondo lunghe distanze. Facevamo entrambi parte, io come sponsor e lui come atleta, di due team che hanno deciso di non iscriversi più al campionato Ski Classics. Questa situazione ha fatto si che ci siamo incontrati, da subito c’è stato un feeling immediato e così abbiamo deciso di incominciare questa avventura».
Quali erano gli obbiettivi all’inizio di questa avventura?
«Gli obiettivi all’inizio erano quelli di avere un team nel circuito delle Ski Classics e di non disperdere quel patrimonio che faticosamente si era costruito nel corso delle nostre esperienze pregresse. Il primo passo era semplicemente quello di avere un team italiano all’interno di un mondo che da sempre è più orientato culturalmente verso la Scandinavia, lì il fondo è uno sport che praticano tutti ad ogni età e dove ogni cittadina ha la propria pista spesso illuminata. È difficile mantenere una squadra italiana in un mondo del genere, l’obiettivo era quello di mantenere nel nostro paese accesa la fiammella in un contesto pressoché scandinavo».   
Nel corso delle stagioni vi siete tolti diverse soddisfazioni con risultati di pregio, c’è qualche gara o evento che custodisce gelosamente nell’album dei ricordi?
«Le soddisfazioni sono state tante. Naturalmente quando si ingaggiano atleti che stanno per smettere e per appendere gli sci al chiodo, parlo di atleti italiani non arruolati, e piano piano si investe su di loro e li si porta ad ottenere risultati e a farli crescere sia umanamente sia agonisticamente è sempre un successo per noi. L’emozione più bella devo dire che è stata la prima Birkebeinerrennet vinta da Justyna Kowalczyk, perchè vedere per me, in veste di appassionato, presidente e sponsor di un team, un’atleta del genere, che ha vinto tutto nella sua carriera, trionfare in una classica blasonata in tutto il mondo con la maglia del mio team addosso è stata un emozione veramente incredibile -si è ripetuta l’anno successivo-. Tutt’oggi siamo uno delle poche squadre non scandinave ad aver ottenuto successi in gare storiche e affascinanti come la Birkebeinerrennet all’interno del circuito Ski Classics. L’emozione nel vedere di Justyna, che arriva da sola con la corona d’alloro, sono attimi indescrivibili e sul telefono ho ancora i video che registrai filmando la diretta tv, ogni tanto li guardo e mi colpiscono ancora»   
Abbiamo discusso con Bruno Debertolis della figura del direttore tecnico, spostandoci su di lei quali sono le mansioni che svolge da presidente del Team Robinson Trentino?
«Tutta la parte operativa, sia per una questione di tempo sia per una questione di competenze, la svolge Bruno Debertolis -in maniera brillante ed efficiente-. Le decisioni relative a scelte fondamentali per il team come la scelta degli atleti vengono sempre prese di comune accordo, dopo essersi confrontati. Personalmente svolgo mansioni a livello amministrativo, contabile, contatti con gli sponsor e di tutto quello che riguarda le questioni relative all’ambito giuridico finanziario tramite la mia struttura. Inoltre, svolgo il lavoro di tifoso, se posso sono sempre a bordo pista a sostenere i ragazzi».
A propositi di tifo, ha dei rapporti diretti con i suoi atleti?
«Si, li sento via Whatsapp e ci vediamo alle competizioni. Passiamo del tempo insieme specialmente alla Vasaloppet, dove stiamo insieme quattro-cinque giorni. Dopo una gara invio sempre dei messaggi di consolazione, se le cose sono andate male, o di incoraggiamento o di plauso. Inoltre, in vista della stagione successiva si parla con gli atleti per trovare gli accordi nell’interesse di tutti dal team al singolo sciatore a cui vogliamo molto bene, per noi la squadra è come una famiglia».  
Avere una realtà italiana come il suo team così influente nel mondo delle Ski Classics porta a qualche pressione o dovere?
«No, pressioni e doveri non ne abbiamo. Il nostro motto, visto che il team nasce e vive per passione, è completamente diverso rispetto a chi lo fa come mestiere. Lo stesso vale per gli atleti, questo ci porta a non avere condizionamenti o pressioni di sorta. È chiaro che una certa parte dello sci di fondo non vede di buon occhio queste gare perché le interpreta un po’ come una sorta di rivale. Chi invece conosce la materia e ha a cuore le sorti di questo sport sa che il nostro circuito è molto competitivo. Abbiamo raggiunto accordi interessanti con alcuni corpi militari e partecipare alle competizioni di Ski Classics ha fatto bene a molti atleti, che poi si sono rigenerati e hanno trovato nuovamente la passione per sciare, cosa che spesso si perde se si fa di mestiere. Questo porta giovamento anche nel disputare gare di Coppa del Mondo, pensiamo a Dietmar Nöckler, era indeciso se smettere o meno, con noi ha ritrovato la voglia e la passione, ed oggi è sempre convocato in nazionale e questo ci fa enormemente piacere. Oltre ad essere un ottimo atleta è un bravissimo ragazzo con una grande passione»
Nel futuro puntate a crescere ancora di più come realtà e come team? Avete delineato quali possono essere i prossimi passi della società?
«Certo, si punta sempre a crescere. È chiaro che un team non scandinavo con un budget di un decimo (se non anche meno) rispetto alle loro realtà deve cercare di crescere non puntando sui soldi o sul garantire ingaggi agli atleti, ma deve puntare sulla passione, il senso di amicizia, lo stringere rapporti tutti insieme e il fatto che si possa partecipare a gare estremamente competitive dove ci si può confrontare ed esprimere il proprio rispettivo valore. Tra le note positive e di crescita va rimarcato che abbiamo un team di skiman eccezionale, che ci garantisce quasi sempre ottimi materiali confrontati con realtà che hanno soldi e investimenti enormi in questo campo rispetto a noi. Ripeto una squadra che nasce per passione deve puntare sulla motivazione stessa per cui si è creata. Devo dire con piacere che tutti gli atleti stranieri che attualmente gareggiano, o che sono passati, per il team stravedono per questa atmosfera che si respira. La stessa Justyna Kowalczyk ogni volta che la chiamiamo per una gara prende la macchina e il figlio e arriva dalla Polonia direttamente. Il Team Robinson è veramente una grande famiglia. È chiaro che ci piacerebbe lanciare o consacrare agli allori qualche atleta italiano, ma purtroppo in Italia c’è un sistema che, a mio avviso, è anacronistico e fa smettere gli atleti in età precoce ed è un imbuto eccessivamente selettivo. A vent’anni non si trovano più fondisti che intendono continuare se non quelli arruolati nei corpi militari, spesso si scelgono perché sono maturi da un punto di vista fisico e magari si perdono atleti che potenzialmente potrebbero diventare ancora più forti. Inoltre, tutto il sistema fin dall’età giovanile è in funziona dell’arruolamento, che diventa l’obiettivo di una vita, molti quando lo ottengono perdono motivazioni e invece vedo che all’estero si scia per il piacere di farlo. Non è un segreto, i paesi che stanno ottenendo i migliori risultati nel fondo sono nazioni in cui non esistono i corpi militari. Non è vero che il sistema adottato nel nostro paese è l’unico che può garantire lo sport italiano, questo è un sistema che potrebbe sopravvivere se a venti anni ci arrivassero duecento atleti anziché quindici. Tutto si basa su gare anacronistiche quelle di Coppa Italia, alle quali partecipano dieci sciatori e che sono diventate autoreferenziali. Questo modo di lavorare non premia chi non viene arruolato e vuole andare avanti, pensiamo a Gilberto Panisi o Stefania Corradini. Il sistema dovrebbe essere al contrario e premiare atleti che solo in virtù della passione e della motivazione a volte ottengono risultati migliori rispetto a chi viene pagato per farlo di mestiere. Il problema è che purtroppo per come è congeniato lo sport in Italia questi atleti vengono visti come cattivi esempi e in realtà sono l’opposto. Vengono visti come cattivi esempi perché poi diventa difficile andare a spiegare come sia possibile che un atleta che studia o lavora e si allena nei ritagli di tempo ottenga migliori risultati rispetto a chi è pagato per quello».    
La sua passione è infinita per questo sport. Domenica ci sarà la Marcialonga, come vive questa giornata di culto per il fondo italiano?
«La Marcialonga è chiaramente un appuntamento fondamentale, forse il più importante della stagione. Devo dire purtroppo che spesso alla Marcialonga non abbiamo avuto una gran fortuna, sono capitate diverse disavventure. Mi viene in mente l’infortunio patito in zona rifornimento a Dietmar Nöckler, quando era in buona condizione e si dovette ritirare perché aveva un occhio tumefatto. Tante volte avevamo degli sci che erano dei missili negli appuntamenti precedenti e successivi alla Marcialonga, ma non alla gara italiana. Penso ad atlete che si sono ammalate all’ultimo minuto, spero quest’anno di ottenere un risultato migliore e incrociamo le dita visto che per noi è la gara di casa. Quando si gioca nel proprio cortile si vuole sempre fare risultato è naturale. Il fascino della Marcialonga è assolutamente paragonabile alla Vasaloppet, due gare mitiche, ma completamente diverse una dall’altra. In una di queste due appena citate ci piacerebbe prima o poi fare un risultato eclatante, se dovessi scegliere preferirei la Marcialonga! Incrociamo le dita».
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