Dominik Windisch ha presentato la sua autobiografia lo scorso 12 ottobre, libro dal titolo “Il Momento Giusto” (“Der richtige Moment, in tedesco), scritto da Sascha Russotti, per tanti anni manager del campione azzurro. A quasi 34 anni, che compirà il prossimo 6 novembre, il campione mondiale mass start del 2019 e bronzo olimpico nella sprint a Pyeongchang, ha deciso di condividere la sua storia con gli appassionati di biathlon e anche semplici amanti dello sport, oltre che con i suoi tifosi, portando il lettore nel dietro le quinte del biathlon, ma soprattutto raccontando il suo percorso, da Rasun Anterselva fino all’oro mondiale di Östersund, quella continua ricerca di perfezione, che ovviamente è impossibile da raggiungere.
Allora lasciamo che sia Dominik Windisch a presentarci il libro che, per il momento solo in lingua tedesca, si può trovare on line e nelle tante librerie di Athesia.
«La casa editrice Athesia Tappeiner ha deciso per la prima edizione di uscire solo in lingua tedesca – ha spiegato Windisch a Fondo Italia, quando lo abbiamo contattato alcuni giorni fa, mentre era in giro a consegnare il libro a ex compagni e allenatori – valutando che la fetta più grande del mercato è rappresentata da Germania, Svizzera, Austria ed Alto Adige. C’è però l’obiettivo di fare un’edizione anche in italiano, ma prima vogliono fare delle ricerche di mercato per vedere quanto è grande l’interesse in tutta Italia e ragioneranno in merito a questa opportunità. Diciamo che è previsto. Io lo spero, anzi la vorrei addirittura anche in inglese (ride, ndr), ma non dipende da me. Magari mandate qualche e-mail alla casa editrice, così capiscono che c’è interesse (ride, ndr)».
Com’è nata l’idea di scrivere un’autobiografia?
«Dopo aver annunciato il mio ritiro, sono andato a cena con il mio manager, Sascha Russotti, anche per chiudere un po’ la nostra lunga collaborazione. Davanti a una pizza abbiamo parlato tanto, gli ho spiegato per bene le motivazioni che mi avevano spinto a lasciare, quindi gli ho raccontato diverse storie del passato ed è rimasto affascinato. Fino a quel momento Sascha aveva percepito il Dominik atleta, ma non aveva mai conosciuto il dietro le quinte, la pressione che proviamo, la tanta preparazione da fare per ottenere risultati. A quel punto se ne è uscito proponendomi di scrivere un’autobiografia. L’idea mi è piaciuta, ma ovviamente gli ho detto che l’avrebbe scritta lui (ride, ndr). Sascha è stato bravissimo, è stato lui a cercare una casa editrice e così è nato tutto. Il resto sono state delle lunghe chiacchierate in cui ho raccontato tutta la mia vita sportiva e mi sono anche servite a rivivere determinati momenti».
C’è qualcosa in particolare che ti ha fatto rivivere forti emozioni mentre la raccontavi?
«Si, diverse cose. Ovviamente nella memoria collettiva restano i grandi successi, come le medaglie alle Olimpiadi o ai Mondiali.
In questo libro ho però raccontato tutta la mia vita, facendo uscire anche i ricordi di tutti quei momenti piccoli ma tanto importanti, le soddisfazioni che in uno specifico momento valevano come una medaglia olimpica. Per esempio, la prima volta che sono riuscito ad arrivare terzultimo, che allora per me era un successo che valeva quanto un podio ai Mondiali, in quel momento era il massimo che avevo raggiunto. Insomma, parlando ho rivissuto i ricordi delle emozioni che mi possono aver dato anche dei piazzamenti, magari un ottavo posto, perché l’importante non era solo la classifica, ma proprio migliorarsi ogni volta».
Insomma c’è proprio tutto, dalle emozioni quando gareggiavi nelle categorie giovanili fino a quelle olimpiche.
«Racconto tanti episodi e aneddoti, storie piccole ma motivanti, che mi hanno spinto ad andare sempre avanti, anche quando non ero competitivo e non ottenevo risultati. Ho descritto anche alcuni episodi negativi.
Uno è paradossalmente legato anche al bronzo olimpico in staffetta a Pyeongchang, quando ebbi la meglio nella volata finale su Peiffer. Allora, qualcuno riteneva che meritassi la squalifica per averlo ostacolato sul rettilineo finale e per la prima volta nella mia vita ricevetti tanti messaggi di “haters” sui social, oltre a tante critiche dai media, soprattutto in Germania. Per me era una novità, era la prima volta che i media scrivevano e parlavano male di me. Fino ad allora, in caso di successi avevano scritto bene di me, altrimenti non scrivevano nulla. Quindi per la prima volta mi sono trovato sotto i rifliettori, a vivere una circostanza del genere e ho dovuto così imparare a gestire anche queste situazioni.
Sempre riguardo a quella gara, ho cercato di descrivere la pressione che si sente quando ti ritrovi ad affrontare l’ultima frazione di una staffetta olimpica. Quel giorno, a Pyeongchang, prima di ricevere il cambio da Luki (Hofer, ndr) mi ritrovavo in zona cambio con tre dei più grandi campioni di allora, Fourcade, Peiffer e Svendsen. Allora ho cercato di descrivere quelle sensazioni, le emozioni, anche il tentativo di non farle notare agli altri, mostrarmi sicuro di me, magari salutandoli con un breve accenno del viso, guardandoli negli occhi in segno di rispetto reciproco ma non paura. Insomma tutti quei trucchi per dimostrare che in realtà non te la stai facendo sotto (ride, ndr).
Oppure, racconto quell’ultimo giro nella sprint olimpica, quando ero lì a pochi centesimi da Eberhard, che era uno dei più veloci in pista. Ho descritto l’importanza dell’aspetto mentale, ciò che da fuori non si vede, quello che allora mi aiutò a fare qualcosa di impronosticabile, battendo l’austriaco negli ultimi metri. Poi ci sono foto che valgono più di mille parole, come quella in cui scavalco Svendsen negli ultimi centimetri per prendermi un podio. La foto dice tutto sulla mia voglia, su quanto fosse grande la determinazione di conquistare quel podio. Quella immagine vale più di mille parole».
Insomma ci sono tante emozioni, i pensieri in gara. Descrivi però anche qualche trucco, magari quando ti trovavi a giocarti la posizione con un avversario all’ultimo poligono o prima di una voltata?
«Certo, ovviamente racconto quelli che ho utilizzato io, come ho gestito determinate situazioni. Ma anche il lavoro mentale fatto in allenamento, oppure i miei riti durante la preparazione della gara. Entro anche nei particolari di alcune decisioni degli allenatori che non mi hanno trovato d’accordo, scelte che ai miei occhi erano sbagliate. Ovviamente nel libro descrivo la loro posizione, perché quando gli allenatori devono prendere delle decisioni difficili, tu da atleta la vedi sbagliata perché pensi a te stesso, non ragioni dal loro punto di vista. Ecco, io ho cercato anche di motivare la loro scelta, spiegare come sono arrivati a una certa decisione e perché dal mio punto di vista allora era sbagliata».
Dorothea Wierer ha scritto la prefazione del libro. Come mai la scelta è caduta sulla tre volte campionessa del mondo?
«Doro è una sorella. Ci siamo conosciuti prima ancora di iniziare con il biathlon, perché le nostre famiglie si frequentavano, tanto che già a sei o sette anni andavamo a fare camminate in montagna. Allora abbiamo iniziato a praticare biathlon nella nostra Anterselva e da lì in poi abbiamo fatto tutta la carriera insieme. Per me è diventata una sorella e ciò, come abbiamo scritto, vuol dire anche litigare. I litigi ci stanno, ma quando contava, Doro è poi sempre stata dalla mia parte, mi ha sempre sostenuto e anche difeso. Inoltre, con lei ho condiviso anche le due vittorie nelle mass start a Canmore e Östersund, come se ci fosse un legame tra i nostri destini».
Wierer ha dichiarato che lei non scriverebbe un’autobiografia, perché non riuscirebbe ad utilizzare filtri e dovrebbe dire cose che coinvolgerebbero altre persone. Saresti curioso di leggerlo?
«Sicuramente la leggerei. Sono d’accordo, in un’autobiografia bisogna raccontare la verità e dire la propria opinione. Non faccio delle critiche alle persone, ma cerco di spiegare le mie motivazioni, perché ovviamente non è stato sempre tutto perfetto. Diciamo che le cose che ho scritto, anche in riferimento ad altri, le posso dire tranquillamente davanti a tutti, sono le mie opinioni su fatti accaduti e sui quali ho un’approfondita conoscenza.
Però racconto anche un po’ di “gossip” (ride, ndr). Come le feste che si facevano dopo le gare in Russia, quella sulla prima stalker che ho avuto, anche qualche bacio dato nel tunnel, ovviamente prima che conoscessi mia moglie. Ecco, racconto anche della storia tra me e Julia».
Immagino ci sia anche la descrizione di tutto il difficile processo che ti ha portato a prendere la decisione di ritirarti.
«Si, nell’ultimo capito spiego bene le motivazioni del mio ritiro, come ci sono arrivato e perché».
Passiamo alla scelta del titolo: “Il momento giusto”.
«Il titolo lo abbiamo trovato subito, già prima di scrivere il libro. Poteva essere solo questo. Tanti mi conoscono perché ho ottenuto, sfruttando il momento giusto, i miei risultati più grandi, alle Olimpiadi come ai Mondiali, quando c’erano condizioni strane.
Ma il “momento giusto” non si riferisce solo a quelle specifiche occasioni, ma a tutti i momenti giusti che mi hanno poi portato a ottenere quei risultati. Già all’inizio, quando ero felice perché per la prima volta che ero arrivato terzultimo, avevo avuto la fortuna di avere l’allenatore giusto in quel momento, perché credeva in me. Così è stato in tante altre occasioni, quando ho avuto intorno a me le persone giuste al momento giusto. Inoltre, da giovane, al momento giusto ho ottenuto i risultati che mi servivano, il podio che mi faceva ottenere la convocazione per il Mondiale, dove poi ho ottenuto la medaglia che mi ha consentito di vincere il concorso per entrare nell’Esercito. Magari, se non avessi ottenuto un determinato risultato in una gara italiana, qualificandomi per i Mondiali giovanili, non sarebbe arrivata la medaglia iridata e non sarei mai entrato nel corpo sportivo. Per arrivare all’oro di Östersund, ho avuto tanti altri momenti giusti, che mi hanno consentito di arrivare lì, come per esempio gare o allenamenti nelle quali ho imparato a gestire il vento. Erroneamente, quando ho colto risultati in gare ventose, qualcuno ha pensato che fossi solo fortunato, ma l’unica mia fortuna erano semmai gli errori commessi dagli altri. I bersagli che io colpivo, invece, non erano fortuna ma il risultato di un processo, fatto delle tante esperienze avute che mi hanno portato a reagire nel modo giusto in quel momento, per chiudere tutti i bersagli. Oltre a tanto lavoro, ci sono tante esperienze, anche negative, che mi hanno aiutato a imparare a gestire nel modo migliore quelle situazioni ventose, consentendomi così di ottenere il massimo al momento giusto».
Anche il sottotitolo non è banale: “in cima, tuttavia ma mai arrivato”.
«Volevo esprimere l’infinita ricerca del miglioramento, anche dopo aver ottenuto grandi risultati. In un primo momento, il sottotitolo avrebbe dovuto essere “il dietro le quinte nella vita di un biatleta”. Mi sembrava, però, banale, perché il libro racconta la storia della ricerca di perfezione e del tanto lavoro fatto. Vedete, non sono mai stato un vero talento al tiro, come Doro, alla quale le cose vengono naturalmente, un dono. Per questo ho sempre dovuto lavorare tantissimo e studiato ogni possibile situazione, curando e studiando tutti i più piccoli dettagli. Ogni atleta, poi, è sempre alla ricerca della perfezione, che non verrà mai. Insomma, anche quando è al top, un atleta sa di non essere arrivato.
Questo è il biathlon: la continua ricerca di una perfezione che non arriva mai, nemmeno se sei Johannes Bø. La cosa bella è che a volte, in alcune gare, quella perfezione riesci a raggiungerla e allora puoi ottenere risultati che non avresti mai immaginato. È proprio quello lo scopo del biathlon, essere perfetto al momento giusto. Io non ero il migliore al mondo, ma sono riuscito a diventare campione del mondo perché sono stato perfetto nel momento in cui gli altri non lo sono stati. Ci sono riuscito solo grazie al tanto lavoro».