È affacciato sulla terrazza dell’Alpen Cafè a Passo di Lavazè, mentre al telefono parla con sua moglie Viola e sorride via video ad Aurora e Alessandro, i suoi figli. Andrea Zattoni ritrova così energie dopo una mattinata molto impegnativa, che lo ha visto dirigere l’allenamento della nazionale maschile con i quattro di Oberhof (Giacomel, Bionaz, Braunhofer e Zeni) e Dorothea Wierer.
Immagini dal secondo raduno della nazionale azzurra di biathlon, che si è chiuso la scorsa settimana in Val di Fiemme, dove abita l’allenatore delle Fiamme Gialle, che è già alla sesta stagione nello staff tecnico della squadra azzurra.
Fondo Italia ne ha approfittato per intervistare Zattoni, facendo con lui il punto della situazione sulla preparazione e affrontando diversi argomenti molto interessanti.
Buon pomeriggio Zattoni. In questa stagione la squadra maschile affronterà alcuni raduni in gruppi separati. Cosa cambia nel suo lavoro?
«Nello specifico del lavoro che devo svolgere non cambia poi molto, perché da allenatore sei sempre al servizio dei ragazzi e cerchi di fare il meglio per loro. La differenza per noi è che quando abbiamo un gruppo piccolo riusciamo a garantire una maggiore qualità. Quando siamo quattro allenatori e abbiamo undici atleti, ogni tecnico è inevitabilmente portato a guardare tutti gli undici atleti, se invece sei due a cinque, ogni tecnico ne guarda cinque. Il rapporto è quindi molto simile, ma la qualità del lavoro è diversa perché dedichi il doppio del tempo a ogni atleta».
Seguendo un vostro allenamento, sono rimasto molto colpito dal bel clima che si respira all’interno del gruppo. Si vede che si è creato un bellissimo ambiente.
«Questi atleti stanno bene insieme sia quando il gruppo è al completo che quando siamo divisi. Per quanto riguarda i cinque che abbiamo qui, i quattro maschi hanno età simile, vanno d’accordo e sono giovani. Dorothea alla fine dà quel qualcosa in più all’interno del gruppo, nonostante abbia otto o dieci anni più dei compagni. Alla fine i giovani la vedono come un punto di riferimento e inoltre lei è anche una persona piacevole con cui passano volentieri il tempo».
Può descriverci il lavoro che state facendo in questa fase della preparazione?
«L’idea che abbiamo avuto è stata quella di aumentare i volumi di allenamento principalmente nei primi tre mesi della preparazione. Dare un po’ più di attenzione a costruire una base solida, sulla quale poi cercare di strutturare la prestazione del biathlon. Un approccio più progressivo e piramidale, come possiamo chiamarlo dal punto di vista metodologico, nella prima fase della preparazione, dove le intensità arrivano in maniera progressiva, prima bassa, poi media, quindi inizieremo a luglio su intensità più alte, per poi chiudere la prima fase della preparazione ad agosto con un buon mese di lavoro intenso con le varie gare che ci saranno, dagli italiani alle kermesse internazionali alle quali alcuni nostri atleti parteciperanno».
Quanto è importante che un atleta sappia conoscersi? Penso, per esempio, al suo gruppo, nel quale, a parte Wierer, gli altri sono ancora giovani e probabilmente devono fare esperienza in questo senso.
«È importantissimo. Il problema che abbiamo, e riscontro anche io personalmente, è che i giovani si conoscono ancora troppo poco all’età di venti, ventuno, ventidue anni. Su questo aspetto, probabilmente bisognerebbe impostare un lavoro di tipo diverso a livello giovanile, con un po’ più di qualità, in modo che nel momento in cui, in un processo a lungo termine, l’atleta arriva ad allenarsi per raggiungere le massime prestazioni, seppur giovani abbiano già un trascorso e un passato che li abbia resi competenti su sé stessi, su come gestire intensità, volumi, anche il recupero, su quali feedback dare al tecnico. Ciò, in questo momento, è per noi una cosa ancora lontana dalla realtà, ma ci stiamo lavorando. Ogni gruppo ci lavora, a partire dalla squadra juniores con Pietro (Dutto, ndr), Samantha (Plafoni, ndr), Aline (Noro, ndr) e Saverio (Zini, ndr), al gruppo delle ragazze e all’altro gruppo maschile. L’idea è quella di condurli in questo percorso e aiutarli. Più loro sono autonomi e riescono a darci delle informazioni, più il lavoro diventa per noi facile e a loro rende maggiormente».
Nella passata stagione abbiamo visto una Dorothea Wierer in grande condizione, forse al di sopra anche delle sue stesse aspettative. Si sarebbe mai immagino di trovarla sul podio della classifica generale? Qual è il suo segreto e cosa deve fare per mantenersi a un livello così alto, vista anche la concorrenza?
«Io penso che il suo segreto sia in parte il carattere, perché lei è una vincente in qualsiasi cosa faccia, vuole primeggiare in ogni situazione. Sinceramente, un anno fa, pur conoscendo la sua classe, non mi sarei aspettato delle prestazioni del genere. Aveva avuto un’estate un po’ travagliata, perché doveva finire la casa e aveva molti pensieri, tanto che a volte mi mandava messaggi anche alle due di notte perché non riusciva a dormire. Quando si è tolta quel peso, probabilmente l’allenamento è diventato più gestibile e semplice.
Con lei vale il discorso che ho fatto prima. Anche la stessa Doro fa fatica ancora a percepirsi al cento per cento, ma sta migliorando molto in questo aspetto. Il suo programma di allenamento è più flessibile rispetto agli altri, perché i suoi anni di esperienza devono rappresentare un tesoro per lei. Doro ha ormai capito dov’è il limite, quando vale la pena superarlo e quando invece vale la pena fermarsi un attimo».
Già da qualche anno segue sia Tommaso Giacomel che Didier Bionaz. Secondo lei a che punto sono? Quali sono i margini di miglioramento di entrambi? Cosa si aspetta da loro?
«Coloro che pretendono di più da sé stesso sono proprio loro. Penso che il discorso sia uguale per me e per Fabio (Cianciana, ndr). Non siamo noi quelli che hanno aspettative e pretendono da loro, perché probabilmente sia Tommaso e Didier si caricano già abbastanza da sé di aspettative e voglia di fare cose importanti. Penso che loro abbiano già dimostrato in momenti diversi qual è veramente il loro valore. Hanno dei margini di miglioramento ancora molto ampi, soprattutto nella gestione delle emozioni, quindi l’approccio alla competizione e al risultato che sia negativo o positivo. In ciò penso che Dorothea possa essere una maestra per loro, perché lei che le cose vadano bene o male, riesce in poco tempo a controllare le proprie emozioni e mantenere un equilibrio.
Quella capacità di superare l’ostacolo che può essere dato da una brutta prestazione o risultato è una cosa che i più giovani devono apprendere, hanno la necessità di imparare a essere molto soggettivi nell’analisi anziché limitarsi solo su un numero che è determinato da una classifica. Nel momento in cui hanno fatto quel tipo di analisi, devono poi guardare oltre ed essere consapevoli delle proprie capacità.
Penso che entrambi devono crescere. Didier ha certamente bisogno di trovare un po’ più di stabilità, cosa che Tommaso ha già trovato nella passata stagione, tolto qualche piccolo periodo. Dal punto di vista atletico, entrambi hanno già dimostrato di essere ottimi atleti, anche se nel panorama internazionale sono ancora abbastanza giovani. Penso lo stesso possa valere per Elia (Zeni, ndr) e Patrick (Braunhofer, ndr), seppur abbiano un trascorso diverso, ma alla fine la cosa è molto simile per tutti loro».
Passiamo allora a Braunhofer e Zeni, reduci entrambi da una stagione positiva. Quali sono i rispettivi margini di miglioramento?
«Patrick deve solo avere più fiducia in sé stesso, perché le sue gare migliori anche dal punto di vista atletico, le ha disputate nella 20 km, che forse è il format che meno gli si addice. Questo deve fargli prendere consapevolezza delle sue qualità. Lui sicuramente sa di essere un ottimo tiratore, deve solo credere di più in sé stesso senza avere paura degli avversari, che sappiamo essere forti. Ma anche se lo sono, non per questo dobbiamo nasconderci sempre, invece bisogna continuare a testa alta per quello che è il nostro valore, senza avere paura di nessuno. Penso che anche lui, con un po’ più di fiducia e tranquillità, possa essere ancora più costante e magari tirare fuori qualche bel risultato anche negli altri format di gara, perché nelle competizioni a quattro serie può sempre fare bene. Ovviamente anche la sprint non è banale, perché bisogna fare sempre un’ottima prestazione in vista della pursuit. Lo stesso vale per le staffette. Ovvio che quando ti trovi a partire vicino a Christiansen, piuttosto che qualche altro atleta del genere ti senti un po’ intimorito. Ciò non vuol dire che non si possa fare il lavoro al meglio, come per esempio è successo a Ruhpolding quest’anno, dove hanno tutti disputato una bellissima staffetta.
Per quanto riguarda Elia, lo scorso anno ha avuto tutto e subito. È partito con l’arruolamento, cosa che forse è arrivata tardi rispetto ai suoi compagni. Poi per quanto riguarda le gare, ha avuto subito un ottimo avvio in Junior Cup e fatto bene in IBU Cup, così è venuto con noi ad Anterselva e si è comportato in maniera egregia, dando anche filo da torcere a Samuelsson in staffetta. Direi che in breve tempo ha mostrato carattere e qualità. Per lui è tutto nuovo, non è abituato a vivere nel mondo dell’alto livello, ma probabilmente lo farà presto perché ha qualità, come ha già mostrato, e i margini di miglioramento sono sicuramente ampi».
Dal punto di vista sportivo, qual è stata la sua più grande soddisfazione nella passata stagione?
«È difficile rispondere. Forse il podio di Tommaso (Giacomel, ndr), perché è stato un risultato che ha rincorso per tanto ed è stato sicuramente un bel momento. Io non ero a Östersund, quindi me lo sono goduto in maniera molto solitaria dal divano di casa. Al di là del risultato singolo, la mia più grande soddisfazione è stata la stabilità da lui avuta nel corso di tutta la stagione.
Dall’altra sono anche contento che Didier, dopo un’annata difficile, abbia ritrovato la fiducia, seppure a corrente alternata. Forse, però, ha trovato la strada giusta per tornare in maniera stabile al suo livello.
Ovviamente non dico che Dorothea non mi abbia dato soddisfazioni (ride, ndr), anzi, quella più grande è vederla serena e tranquilla durante la preparazione e gli allenamenti. Ho imparato che sé lei è serena e si ascolta bene, poi le prestazioni arrivano».
Infine può raccontarci com’è la vita da allenatore, che è anche marito e papà di due figli? Com’è stato stare lontano da casa per tanto tempo mentre sua moglie aspettava il secondo figlio? Ricordo che dopo Oberhof, è tornato in Trentino per stare al suo fianco e assistere alla nascita di Alessandro.
«Andrebbe chiesto a Viola, che probabilmente risponderebbe in maniera diversa (ride, ndr).
Dal punto di vista lavorativo cerco di essere sempre il più professionale possibile nei confronti degli atleti, che sia in raduno o a casa. Sono sempre disponibile per loro anche quando siamo in raduno, perché alla fine possono chiamarmi quando vogliono, anche alle dieci di sera.
Invece da quello personale e umano è più complicato. Finché avevamo solo Aurora era relativamente semplice e anche mentre Viola era incinta pochi mesi fa, perché fortunatamente anche la seconda gravidanza è stata tranquilla. Ora ovviamente con due figli è tutto più complicato e ringrazio mia moglie per la sua forza, perché sta cercando di permettermi di proseguire a fare questo lavoro, che mi piace.
Sicuramente sarebbe bello poter tornare tutti i giorni a casa da mia moglie e i miei due figli, cosa che forse tante persone che hanno quotidianamente questa opportunità non apprezzano appieno. Credo che paradossalmente, questa situazione mi dia la possibilità invece di farlo quando ho l’opportunità di passare del tempo con loro. Certo, non sarebbe male averne di più».