Home > Notizie
Biathlon , Interviste , Pianeta Italia

Biathlon – Emil Bormetti ci racconta la sua attuale esperienza a stelle e strisce nello staff degli Stati Uniti

Ha appena ventisette anni, eppure ha già fatto mille esperienze di vita nel mondo del biathlon e oggi sta lavorando come vice allenatore di Armin Auchentaller nella squadra statunitense. Emil Bormetti, da Livigno, è un autentico giramondo. Dopo aver lavorato con squadre come Australia, Nuova Zelanda e Brasile, il livignasco, ex biatleta, si è tuffato con passione, impegno, curiosità e tanta voglia di imparare in una nuova avventura, a stelle e strisce.

Lo abbiamo incontrato in un momento di tranquillità dopo gli allenamenti, per sapere da lui come sta precedendo questa bella esperienza in una squadra statunitense che ha al suo interno giovani molto interessanti.

Ciao Emil. Intanto raccontaci come sei entrato a far parte dello staff tecnico degli Stati Uniti.
«Venivo da cinque anni di lavoro con le squadre di Nuova Zelanda, Australia e Brasile. Al termine della passata stagione sentivo che si era chiuso il ciclo della mia esperienza con loro. Avevo già pensato di provare qualcosa di diverso con altre squadre e a quel punto mi è stata offerta questa opportunità di lavorare con gli Stati Uniti.
Ho parlato con Armin Auchentaller, che è venuto anche a Livigno per conoscermi. Dopo quell’incontro si è instaurato subito un ottimo rapporto, ci siamo sentiti spesso e mi è stato quindi proposto di lavorare con loro».

In questi tuoi primi mesi di esperienza nel biathlon statunitense, cosa hai notato? Quanto è diverso rispetto a quello europeo?
«Cambia tanto. La sfida più grande da affrontare è l’immensità del paese, perché le distanze sono enormi e gli atleti vengono da zone lontanissime tra loro. Ci sono anche tre ore di fuso orario tra una costa e l’altra. Insomma non è mai facile organizzare raduni. Abbiamo Lake Placid come struttura base, dal momento che lì c’è il centro olimpico. Quindi cerchiamo a volte di organizzare i raduni in questa località, dove proviamo a riunire tutta la squadra e permettere agli atleti di stare tutti assieme e allenarsi lì. Ovviamente le cose sono diverse dopo le due o tre settimane di raduno, in quanto è difficile per loro trovare sempre compagni di allenamento quando sono a casa, per il problema delle distanze.  
L’esperienza estiva negli Stati Uniti è stata bellissima, sono stato lì due mesi e mezzo da giugno a metà agosto. È un mondo diverso, un’altra mentalità».

Ecco, proprio questo aspetto mi piacerebbe approfondire. Hai notato qualcosa di diverso nella mentalità degli atleti, nel modo di approcciare all’allenamento e alla gara?
«Si, c’è qualcosa di diverso. Sono persone che si fanno pochi problemi. Amano il loro paese e sono orgogliosi di rappresentarlo in nazionale, ma allo stesso tempo non sono così attaccati al loro luogo di origine, si spostano senza farsi problemi anche dal punto di vista logistico, perché possono anche passare delle notti a dormire in macchina. Dal punto di vista più strettamente sportivo la vivono in maniera seria, come facciamo noi. Negli Stati Uniti si dà da sempre grande importanza allo sport».  
Dall’altra parte, devo dire che non essendoci dei gruppi sportivi militari, alcune cose sono diverse. Anche loro vivono lo sport come professione e ci mettono tutto l’impegno possibile, ma allo stesso tempo sanno già cosa fare quando la loro carriera sarà finita, consapevoli che intraprenderanno un percorso diverso. Credo che questo sia un loro punto di forza, lo sport è una pagina della loro vita, sanno che una volta terminata la carriera sportiva, faranno altro».  

Un aspetto che mi ha sempre impressionato degli atleti che vengono da oltre oceano, è il fatto che durante la stagione passano tantissimi mesi a migliaia di chilometri da casa. Allo stesso tempo, però, li vedo sempre sorridenti e divertiti, indice della loro grande passione.
«Si sono davvero appassionati. Come ho detto in precedenza, però, rispetto alla nostra mentalità, a differenza di noi italiani, che siamo molto più legati alla nostra casa e spesso quando dobbiamo spostarci e stare lontano per un lungo periodo soffriamo un po’, loro quando vengono in Europa se la godono, perché girano nazioni diverse, conoscono gente nuova. Insomma, gestiscono bene la distanza, perché a loro piace tanto venire in Europa, conoscere tutte le altre culture, il cibo, soprattutto in Italia. Sono curiosi. Ovviamente ci sono anche gli affetti, così durante lo stop natalizio, alcuni tornano a casa per una settimana mentre altri ricevono le visite delle proprie famiglie per passare le feste insieme».  

Da fuori sembra quasi una famiglia in movimento.
«Si, è un gruppo molto unito e compatto. Questa cosa si sente, è un nostro punto forza».

Ci sono anche alcuni atleti giovani che sembrano avere delle buone potenzialità, come Germain o Bonacci. Che futuro vedi per loro?
«A livello giovanile abbiamo dei buoni prospetti. La cosa che ammiro di loro è il modo in cui approcciano alle gare. Anche quando li abbiamo portati ad Anterselva, in un contesto importantissimo che può mettere timore, erano lì che se ridevano tranquilli, senza sentire pressione. La prendono sempre con goliardia, ma quando devono lavorare si mettono sul tappeto o in pista e sanno cosa devono fare. È stata una fortuna poter lavorare tanto con loro in estate».

Parlando di te. Quanto è utile lavorare con un allenatore esperto come Armin Auchentaller? Quanto stai imparando?

«Da Armin imparo ogni giorno, ha un background ed un’esperienza enormi, è nel biathlon da tanto tempo e mi trovo davvero bene con lui. È anche una persona calma, che ha la pazienza di spiegare le cose. Già dal primo giorno della mia prima settimana negli Stati Uniti ho capito che vicino a lui avrei imparato tanto. La cosa che più mi piace di lui, è che anch’egli non vuole mai smettere di imparare, è sempre alla ricerca del piccolo dettaglio che fa la differenza. È un atteggiamento che mi sta trasmettendo e ciò mi aiuta a crescere».

Sei giovanissimo, eppure hai già fatto tante esperienze internazionali. Raccontaci un po’ come sono arrivate.
«Si, prima praticavo biathlon. Ho smesso all’età di ventuno anni. Allora, grazie a Luca Bormolini, mi è stata data l’opportunità di lavorare con l’Australia. In estate mi spostavo da loro, poi nel nostro inverno, i ragazzi venivano da noi a Livigno. Per cinque anni ho lavorato con loro, ma il gruppo si è ingrandito, perché siamo partiti con l’Australia, ma si sono poi uniti atleti di Nuova Zelanda, Brasile, un ragazzo della Spagna, un irlandese. Avevamo un team multiculturale, qualcosa di bellissimo. Girare con loro è stato fantastico, perché erano tutte persone provenienti da nazioni e continenti diversi, con le loro storie, diverse culture, esperienze e mentalità. È stato bello, interessante e formativo. Nel corso di questi cinque anni ho seguito più la Junior Cup e l’IBU Cup, più qualche Coppa del Mondo. Ma questo è il primo anno nel massimo circuito».

Queste esperienze quanto sono state importanti per formarti e allargare il tuo background?

«Tantissimo, perché da ogni persona impari sempre qualcosa di nuovo, ti confronti, entri in contatto con altre idee, magari diverse dalle tue, che possono ispirarti e aiutarti a crescere. Credo questo sia stato l’aspetto più bello e utile per il sottoscritto».  

A questo punto, viste le tante esperienze che stai facendo, volevo chiederti qual è il tuo obiettivo.
«In questo momento mi trovo molto bene negli Stati Uniti e mi piacerebbe completare questo ciclo olimpico con questa squadra, arrivare a Milano-Cortina 2026 con gli Stati Uniti. Poi si vedrà, non voglio pianificare le cose troppo a lungo, ma concentrarmi solo su questo ciclo».

Ma qual è il segreto di Livigno? Tra sci di fondo e biathlon siete tanti in Coppa del Mondo.
«Effettivamente anche qui siamo in quattro da Livigno, senza contare altri valtellinesi come Cantoni. Diciamo che da Livigno siamo quattro: io, mio padre che è nella Bulgaria, Tommaso Longa, sempre nella Bulgaria da skiman e Luca Bormolini con la Corea del Sud. Potremmo fare quasi serata pizzoccheri e sciatt (ride, ndr).
Non so come mai siamo tanti livignaschi in questo ambiente, tutti che amiamo girare il mondo non per forza con squadre blasonate. Credo sia qualcosa dovuto alla grande vocazione sportiva della nostra località. Quasi tutti pratichiamo sport e una volta smesso vogliamo restare nell’ambiente, chi attraverso le attività di famiglia e chi, come me ed altri, girando il mondo».

Grazie mille Emil, in bocca al lupo per la seconda settimana del Mondiale e ricordatevi di invitarmi per la serata pizzoccheri e sciatt.
«Certamente, tra Oberhof e Oslo la organizziamo (ride, ndr)».

Share:

Ti potrebbe interessare

Image
Image
Image