Nella seconda parte il tema principale sono i giovani, che quest’anno hanno regalato non poche soddisfazioni all’Italia tra vittorie in IBU Cup Junior, medaglie mondiali ed europee, l’oro in staffetta alle Olimpiadi Giovanili, per finire con il bellissimo esordio in Coppa del Mondo dei 2000 Giacomel e Bionaz. Belle notizie in vista di Pechino 2022 e soprattutto Milano-Cortina 2026.
Ci diceva che già nella prossima stagione lavorerete pensando a Pechino a 2022; ciò significa che verrà dato maggiore spazio ai giovani?
«Sicuramente cercheremo di lavorare sui giovani, ma prima dobbiamo tornare al discorso precedente e vedere come si potrà organizzare la stagione e quale sarà l’obiettivo. In ogni caso trovo ormai antiquato pensare solo al discorso squadra A, B o Juniores, bisogna uscire da questa mentalità, ma immaginare le squadre soltanto come gruppi di lavoro, che siano abbastanza omogenei sotto l’aspetto tecnico. Nel caso dei giovani bisognerà farli crescere bene, ma senza rischiare troppo, le decisioni riguardo loro vanno ben ponderate. Lo schema delle squadre A, B o C, però, lo ritengo vecchio, al punto da diventare quasi un limite».
È stato sorpreso dall’ottimo esordio in Coppa del Mondo di Giacomel e Bionaz?
«No, ero rimasto più sorpreso in occasione del loro esordio in IBU Cup. Non immaginavo che Bionaz potesse arrivare così avanti sfiorando addirittura il podio e lo stesso avrebbe potuto fare anche Giacomel. In quei giorni ho capito che questi ragazzi erano più avanti del previsto. Allora li abbiamo portati in Coppa del Mondo, dove rispetto all’IBU Cup con un giro di penalità cambia tutto. Però dopo la gara fatta in IBU Cup ero convinto che avessero le carte in regola per poter andare a punti anche in Coppa del Mondo. Ecco, diciamo che a Nove Mesto e Kontiolahti, più dei risultati, mi ha sorpreso l’atteggiamento con cui hanno affrontato la competizione. Pensavo sentissero un po’ la paura o l’ansia dell’esordio, invece nonostante il giusto pizzico di emozione hanno affrontato le gare come sempre. Altri quando sono arrivati in prima squadra non sono riusciti a farlo. Ciò vuol dire che hanno la stoffa dell’atleta in grado di gareggiare senza pensieri. È una cosa che non puoi allenare più di tanto, ma deve essere già in tuo possesso. Tutto il gruppo presente, staff, allenatori e skiman, sono rimasti piacevolmente colpiti da questi ragazzi perché non hanno paura di niente, li hanno visti muoversi bene anche nelle gare sull’uomo, senza timori reverenziali. Direi che in questo momento avere due ragazzi caratterialmente così è una gran bella cosa».
Oltre a loro, sono arrivati risultati molto positivi anche da altri atleti delle categoria Juniores e Giovani, comprese le medaglie agli YOG; una bella notizia per il biathlon italiano.
«Si, ma bisognerà lavorare con molta attenzione, far fare loro i giusti volumi per crescere e non arrivare impreparati al salto, quando tutto diventa più difficile. Il mondo Juniores è diverso da quello senior, perché puoi ottenere dei risultati grazie a delle combinazioni che tra i grandi puoi anche non trovare. Se non hai la preparazione adeguata è difficile anche in IBU Cup, basta che ti sloghi una caviglia in primavera e la stagione diventa difficilissima. Faccio l’esempio di Braunhofer, che lo scorso anno ha tribolato tantissimo a causa di un brutto infortunio in Primavera, ha sofferto tra i senior ma ha vinto una medaglia a livello Juniores. Questo caso conferma che nelle categorie giovanili se hai qualità riesci a tirare fuori dei buoni risultati, ma quando sali negli altri due circuiti basta un nulla per rendere tutto più difficile. Dovremo quindi farli lavorare sull’onda di quanto fatto, facendoli crescere costantemente senza paura di fare volumi. Sicuramente avranno anche loro delle stagioni negative, fa parte del gioco, arriverà un momento in cui puoi accusare il colpo e non fare risultato. A quel punto bisognerà tenere duro e lavorare ancora. Quando sali di categoria devi lavorare più duramente, perché fai cicli da tre settimane di gare e qualcuno le accusa di più rispetto ad altri».
Alcuni azzurri, che in passato hanno vinto medaglie a livello giovanile, per ora stanno faticando a confermarsi tra i senior; come recuperare questi atleti che stanno soffrendo il salto?
«Non dobbiamo usare il termine “recuperare” ma “crescere”, perché oggi si trovano a gareggiare proprio in un altro mondo. Questi atleti continuano ad allenarsi bene e con qualità, hanno aumentato volumi ed intensità. Non tutti però riescono ad avere subito la maturità di adattarsi a un livello nel quale bisogna affrontare il tiro in un altro modo, essere più veloci, dove cambia tutto. Per me, quindi, non dobbiamo recuperarli, ma semplicemente continuare a lavorare sulla loro crescita. Bisogna accantonare la convinzione che se un medagliato a livello giovanile non entra subito in top quindici in IBU Cup, allora è da recuperare. Se vinci a livello junior non è automatico farlo anche dopo. Devi continuare a lavorare, migliorare, crescere. Tra gli juniores puoi essere lento al tiro o sugli sci, coprire i bersagli e vincere la medaglia. In IBU Cup e Coppa del Mondo non è così, bisogna migliorare l’avvicinamento e l’uscita dal poligono, velocizzare il tiro e farlo coprendo ovviamente i bersagli. Per questo motivo ritengo che a livello giovanile sia importante soprattutto essere nelle zone alte, non tanto vincere le medaglie. Anzi, a volte le medaglie sono anche pericolose, perché se a un giovane che sale sul podio agli YOG, mettiamo in testa che per questo motivo vincerà una medaglia olimpica, commettiamo un grave errore. La strada è molto lunga, il ragazzo deve capire che non sarà affatto facile, deve prepararsi per quando troverà le difficoltà. A volte per un giovane è meglio essere tra i migliori quindici senza aver fatto la gara perfetta, così si rende conto che ha margine, sa di dover migliorare. Insomma con i giovani bisogna fare attenzione e non arrivare mai a conclusioni troppo affrettate».
Constatiamo che tra le problematiche attuali da affrontare, alcune cosa da sistemare all’interno della squadra e le valutazioni da fare per mettere i giovani nelle migliori condizioni per emergere, quello del direttore tecnico è un lavoro veramente difficile.
«Ho delle responsabilità, ma non sono un dottore che salva vite. Diventa tutto più semplice quando staff ed atleti sono persone in gamba e con almeno un piede sempre attaccato a terra, come quelle che fortunatamente ho trovato negli anni. Qualcuno a volte mi dice che non vorrebbe essere al mio posto prima di scegliere la formazione di una staffetta o in altre situazioni, ma non sono un chirurgo con un bisturi in mano. Ritengo questo ruolo molto bello perché ogni giorno è diverso. Poi si, è anche stressante, ma parliamo sempre di sport».