È stata una delle più grandi biatlete italiane della storia e oggi allena i giovani delle nazionali “junior” femminile e maschile. La gardenese Michela Ponza ha dato e sta ancora dando tantissimo al biathlon italiano: ha vinto, con la staffetta azzurra ai Mondiali di Nove Mesto nel 2013, la prima medaglia iridata per il movimento femminile, è salita sette volte sul podio in Coppa del Mondo e con un quinto posto nell’inseguimento alle Olimpiadi di Torino 2006, ha anche il secondo risultato migliore di sempre ai Giochi, dopo Karin Oberhofer a Sochi nel 2014 (quarta). Nello staff tecnico della nazionale junior, l’ex atleta delle Fiamme Gialle si sta dedicando in particolare al tiro, per trasmettere ai giovani azzurri tutte le sue grandi conoscenze, quelle di una biatleta capace di concludere ben 54 gare di Coppa del Mondo senza errori al tiro. Una grande insegnante per gli junior italiani, che da lei ricevono tanti consigli non soltanto per migliorarsi nello sport, ma soprattutto nella vita.
Ciao Michela, come sta procedendo la preparazione?
«Bene. Abbiamo già svolto due ritiri a Chiusa Pesio e in Francia. Stiamo lavorando ottimamente, anche perché abbiamo il vantaggio di conoscerci ormai da alcuni anni sia con gli atleti sia noi tecnici. Al tiro i ragazzi sono cresciuti moltissimo, hanno messo le basi necessarie, sulle quali ora possiamo costruire sopra. Abbiamo messo a posto alcuni difetti e ora abbiamo l’opportunità di farli migliorare, concentrandoci sulla velocità. Nei primi ritiri si lavora soprattutto sulla posizione, si cerca di capire se ci sono degli aggiustamenti da fare e dopo si punta sulla precisione al poligono. Poi, come stiamo facendo ora, si passa alla velocità, perché si è raggiunta la base».
Nella tua carriera hai vinto tre medaglie a livello junior; quali consigli hai dato agli atleti del gruppo che hanno vinto medaglie nei recenti Mondiali Giovanili?
«Abbiamo avuto un colloquio con tutti gli atleti. Soprattutto Alex (Inderst ndr, allenatore responsabile della squadra) ha parlato con coloro che hanno vinto medaglie, invitandoli a non farsi condizionare dalle aspettative che loro stessi si sono creati. Se si mettono pressione da soli, diventa tutto più difficile. L’importante è che continuino a lavorare con l’impegno che ci hanno messo fino ad oggi, perché la strada è ancora lunga. La medaglia deve essere un punto di partenza, una motivazione a impegnarsi ancora di più, a fare le cose in modo sempre più corretto, per raggiungere altri obiettivi».
Negli ultimi Mondiali Giovanili siete giunti secondi nel medagliere: ve lo sareste mai aspettato?
«No, perché nei precedenti Europei consideravamo già positivo l’ingresso nei venti e ottimo nei dieci. A Brezno, però, tutto ha girato per il verso giusto, i tecnici dei materiali sono stati bravissimi e le condizioni difficili al poligono ci hanno dato una mano. Per quanto mi riguarda, ho dato loro qualche consiglio, non nello specifico della tecnica, ma piccoli accorgimenti legati all’esperienza maturata in tanti anni di carriera. La nostra squadra è entrata in forma al momento giusto, Alex è stato bravissimo nella preparazione e i nostri atleti nel fare le cose per bene proprio nelle gare più importanti. Per esempio Michela Carrara, che nel corso della stagione aveva avuto qualche problema al poligono e aveva lavorato moltissimo per migliorarsi, in quei giorni ha sparato benissimo nelle gare più importanti, dimostrando di avere una grande forza mentale e di concentrazione, per tirare fuori il meglio di sé nei momenti decisivi. Lo stesso discorso vale per Irene Lardschneider».
Puoi descriverci il tuo lavoro?
«Io mi occupo dell’allenamento al poligono, insieme a Samantha Plafoni, un lavoro piuttosto grande, così ci siamo divise i compiti. Cerchiamo di dare il consiglio esatto nel momento e nel modo giusto. Dobbiamo capire quale errore è stato commesso, comprendere cosa va detto, il modo e i tempi in cui va fatto, anche per fare in modo che non si scoraggino».
Quanto è difficile, per un atleta, ripetere in gara quanto imparato in allenamento?
«Nel tiro la testa è un fattore importante, tanti sparano bene in allenamento e in gara non riescono a ripetersi. Bisogna essere freddi nel momento giusto, una cosa che da una parte è innata, ma che si può anche allenare. Per questo motivo spesso organizziamo delle piccole gare tra i nostri atleti, mettendo anche delle penalità per chi perde, come lavare i piatti. Lo facciamo per mettergli un po’ di pressione, perché altrimenti se in allenamento fai uno zero o manchi tre bersagli, cambia poco. Invece, vogliamo far contare i colpi anche in allenamento, abituarli alla pressione. L’obiettivo è che sappiano mettersela addosso anche negli allenamenti a casa, perché è importante lavorare bene anche nelle settimane in cui non si è in raduno. Vogliamo rendere i nostri atleti più autonomi».
Come mai, una volta terminata la tua carriera da atleta, hai intrapreso quella da tecnico?
«Merito anche di una circostanza fortunata, perché nel momento in cui ho terminato la mia carriera agonista, il responsabile del biathlon delle Fiamme Gialle è andato in pensione e il Gruppo Sportivo ha deciso di propormi di prendere il suo posto. Nella prima stagione ero all’interno della squadra B della nazionale, lavorando anche con gli atleti di sede delle Fiamme Gialle. Successivamente sono passata alla squadra juniores, nella quale si è creato un bellissimo gruppo. Ci divertiamo molto, oltre che lavorare. Ringrazierò sempre la Finanza per questa bella occasione, perché ho avuto l’opportunità di mettere a disposizione di altri atleti l’esperienza che ho maturato in vent’anni di carriera, nella quale ho vissuto diverse situazioni, trovato problemi e cercato le soluzioni per risolverli. Avendo quindi già affrontato determinate problematiche, so quali consigli dare ai ragazzi per superarle. Mi piace tanto essere un tecnico».
Parliamo un po’ della tua carriera: hai concluso 54 gare di Coppa del Mondo senza commettere alcun errore al tiro; qual era il tuo segreto?
«Non avevo alcun segreto, al tiro non avevo delle qualità innate come quelle, per esempio, di Dorothea (Wierer ndr). Ogni risultato al poligono me lo sono costruito con tanta concentrazione, cercando di migliorare sempre. Io non ho mai fatto delle grandi raffiche, ma ho sempre tirato ragionando e concentrandomi. Per essere così precisa al tiro, non ho dato niente per scontato, ho curato ogni minimo particolare, senza lasciare nulla al caso. Un metodo che ho imparato grazie al tiro a segno, che ho praticato prima di diventare biatleta».
Curi molto i particolari anche da tecnico?
«Moltissimo, perché ci sono tanti particolari cui fare attenzione. Non devi lasciare che un atleta faccia un movimento scorretto in allenamento, perché ripetendolo spesso finisce per memorizzarlo, diventa automatico e lo commette anche in gara. Ognuno di loro deve fare le cose per bene, capire che è importante per loro ripetere un gesto più volte, anche se può sembrare noioso».
Torniamo a te. Hai avuto una carriera lunga e ricca di soddisfazioni: qual è quella a cui sei più legata?
«Ho diversi momenti a cui sono particolarmente legata. Sicuramente la medaglia mondiale con la staffetta a Nove Mesto, la prima nella storia italiana al femminile, ha rappresentato il coronamento di una carriera. Ricordo poi con grande piacere il quinto posto alle Olimpiadi di Torino, perché per ogni atleta è una fortuna gareggiare in un’Olimpiade casalinga, figuriamoci ottenere un ottimo risultato. Sono molto legata anche alla sprint della mia quarta Olimpiade a Sochi, perché atleticamente non ero in grande condizione, ma ero riuscita a fare due serie pulite e per me questo valeva una vittoria. Infine ricordo con grandissimo piacere anche lo zero ottenuto nell’ultima serie della mia carriera ai Campionati Italiani. Ci tenevo tantissimo, tutti si aspettavano lo zero, sentivo tanta pressione, come in Coppa del Mondo, c’era anche mio papà che mi faceva il video. Insomma, avevo tanta paura di sbagliare. È stato però così per tutta la mia carriera, ogni serie al tiro è stata una lotta contro me stessa».
In carriera sei salita sette volte sul podio in Coppa del Mondo: ti pesa non essere mai riuscita a vincere?
«Mi è dispiaciuto, soprattutto in alcune occasioni, come per il secondo posto di Holmenkollen, quando sono stata staccata di un solo secondo da Martina Glagow, o quando sono finita alle spalle di Iourieva a Pokljuka. Però sono felice per quello che ho fatto, perché avere qualche medaglia appesa al muro cambia poco, i riconoscimenti materiali sono solo qualcosa in più rispetto alla consapevolezza di aver corso sempre pulita ed essermi divertita tanto. Non è poco. Come dico spesso ai ragazzi, fare l’atleta è un privilegio, coloro che hanno questa occasione sono fortunati perché fanno ciò che amano. Bisogna godersi gli anni in cui si gareggia, avere rispetto per se stessi, puntando a raggiungere il massimo che è nelle proprie possibilità. Io ringrazio le Fiamme Gialle soprattutto per questo, avermi dato l’occasione per tanti anni di fare ciò che più amo, il biathlon, e oggi poter trasmettere a questi giovani quanto imparato nel corso della mia carriera».