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Sci di fondo

Il consiglio di Roberto Gal: “Fate sognare gli atleti”

Ha reso grande lo sci di fondo francese, costruendo praticamente da zero una squadra che ancora oggi sta raccogliendo i frutti del suo lavoro. Parliamo di Roberto Gal, che, dopo aver lavorato dal 1987 al 1998 come tecnico dei materiali per la nazionale italiana, contribuendo ai successi ottenuti in quegli anni dagli azzurri, nel 1998 ha accettato la chiamata della federazione francese, portandola a ottenere dei grandissimi risultati, se si considera che prima del suo arrivo soltanto in sei occasioni gli atleti francesi erano saliti sul podio in Coppa del Mondo. Nel 2011, dopo il ritiro di un grande campione come Vincent Vittoz, ha lasciato la nazionale, ma tre anni dopo, quando la staffetta francese ha vinto il bronzo a Sochi, uno degli atleti della squadra, Jean Marc Gaillard, ha ringraziato il tecnico italiano: “Abbiamo preso coscienza che poteva aprirsi una porta e nulla ci era precluso. Tutti hanno imparato qualcosa da Roberto e oggi pensiamo a lui”.
Oggi Roberto Gal ha una piccola catena di negozi specializzati in articoli sportivi nella Valle d’Aosta, chiamata Gal Sport, ma riceve spesso visita da tanti sportivi che chiedono consigli o vengono a farsi curare personalmente gli sci da lui. La sua passione per il fondo è sempre molta, come ha dimostrato in questa intervista, nella quale ha esposto anche le sue idee sul fondo di oggi e come andrebbe, secondo lui, organizzata una nazionale.

Buongiorno Gal. Lei è stato per tanti anni nel mondo dello sci di fondo, prima come tecnico dei materiali per l’Italia, quindi come allenatore della Francia. Quanto è cambiato questo sport nel corso degli anni?
«Molto, come è normale che sia. Soprattutto è cambiata tantissimo la battitura delle piste, perché i fondi sono spesso durissimi, quindi gli atleti usano molto di più le braccia rispetto al passato. Se prendiamo un fondista di vent’anni fa, era sicuramente più debole nelle braccia rispetto a quelli di oggi, che si allenano con gli skiroll per tutta l’estate andando a spinta. Un atleta in passato era cuore e gamba, oggi senza braccia potenti è già fuori dai giochi prima di partire».

È sempre più grande la tendenza tra gli atleti di saltare diverse gare di Coppa del Mondo nel corso della stagione.
«Il fondo si è evoluto tantissimo negli ultimi vent’anni. Un tempo le gare di lunga distanza fuori dal circuito della Coppa del Mondo erano una decina, oggi se ne disputeranno 40-50. È un ambiente, quello, dove girano più soldi rispetto alla Coppa del Mondo, quindi può capitare, come successo con Sundby in occasione delle finali, che un atleta possa rinunciare a qualche gara di Coppa del Mondo per fare qualche soldo in più negli altri circuiti. A questo, aggiungiamoci anche il fatto che, oggi, disputare la Coppa del Mondo è più pesante rispetto al passato, ci sono tantissime gare e un fondista si trova a fare continui viaggi e ritiri, stando lontano da casa per 200-220 giorni ogni anno. Per questo motivo, spesso, ci sono degli atleti che decidono di recuperare energie e fermarsi qualche giorno, restandosene a casa».

Qual è stato il momento più bello della sua carriera da tecnico e allenatore?
«Sicuramente ho due passaggi che sono stati più forti rispetto agli altri. Quando ero tecnico dei materiali per l’Italia, ovviamente, l’oro nella staffetta di Lillehammer. Da allenatore della Francia, invece, le vittorie di Vittoz, in particolare quella al Mondiale di Oberstdorf».

A Lillehammer quanto furono importanti i materiali?

«Diciamo che i materiali sono sempre importanti, saranno decisivi nel 50% delle gare. Quel giorno ricordo che faceva freddissimo, -20. L’Italia, comunque, ha un bellissimo staff anche oggi, i tecnici italiani sono da sempre molto bravi e anche ambiti all’estero».

Nel 1998 cosa la spinse a lasciare l’Italia per allenare la nazionale francese?
«Mi vennero a cercare loro, mentre in Italia non mi consideravano, anzi, probabilmente non ero molto simpatico a qualcuno, visto che mi misero nella squadra B. In quel momento si fecero sotto Norvegia, Francia e Svizzera, ma scelsi la nazionale francese perché mi diedero carta bianca. Arrivai che c’erano solo due atleti, sono andato via con 42 podi in Coppa del Mondo. Pensate che, ancora oggi, molti francesi mi portano gli sci per fare la preparazione».

Come siete riusciti a organizzare una squadra che è diventata tra le più competitive?
«Siamo partiti lentamente e con il tempo, lavorando sempre con molta umiltà, siamo riusciti a creare un bel gruppo. La prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di aprire le porte agli atleti più giovani e anche alcuni che erano considerati meno forti, i quali nel corso del tempo sono cresciuti. Inoltre avevamo formato un gruppo e uno staff molto unito, nel quale tutti sapevano fare ogni cosa, con il massaggiatore che era anche skiman. Ma la cosa più importante, per creare un gruppo competitivo, è far sognare gli atleti, ventenni o trentenni che siano, tutti devono avere la consapevolezza che se daranno il massimo, potranno andare alle Olimpiadi. Io aprivo sempre le porte a tutti, ogni mese portavo in Coppa del Mondo atleti nuovi e l’ultimo dei sei lasciava il posto a un altro. Mi dispiace constatare che, dopo il mio addio, in Francia si siano rimessi a chiudere le porte, tanto che è nato un gruppo per le distanze lunghe, perché non credono più alla federazione. Purtroppo è quello che succede se non fai sognare gli atleti».

Sarebbe favorevole alla creazione di una squadra sprint?
«Quando allenavo io, la sprint era una specialità diversa, non specializzata come oggi. A mio parere in questo momento è necessaria la creazione di una squadra sprint e spero che anche l’Italia crei una squadra dedicata solo a questa specialità. Se creassimo un gruppo sprint, sono convinto che tra tre o quattro anni avremmo molti atleti competitivi in questa specialità. L’Italia oggi ha soltanto Pellegrino, che è un grandissimo campione, mentre la Francia, per esempio, ha cinque o sei atleti che possono entrare nei trenta in ogni gara».

Quale eredità ha lasciato in Francia?
«Ho lasciato la nazionale quando eravamo al top e avevamo creato ormai un mondo partendo dal nulla. In Francia ci sono il triplo di fondisti rispetto all’Italia, ma da sempre, eppure non facevano risultati, perché disorganizzati. Ora, se la federazione francese torna a chiudersi fa un grave errore, perché bisogna lasciare le porte aperte, far sognare l’atleta giovane e quello più anziano. Io facevo un raduno al mese, mi portavo quindici atleti, oggi invece ne organizzano due o tre con al massimo cinque fondisti. Ci sono ragazzini che corrono a destra e a sinistra, ma se non li aiutiamo a sognare, li perdiamo. Un discorso che vale anche per l’Italia, guardate quanti atleti ormai partecipano alle nostre gare nazionali».

Le sarebbe piaciuto ricevere la chiamata della nazionale italiana?
«Ormai ho dato al sistema e va bene così, anche perché dovrei avere carta bianca come avevo in Francia, avere una federazione che mi appoggi al cento per cento su tutto. Invece vedo che abbiamo le squadre ai minimi termini, non posso pensare che una squadra A sia composta da appena cinque atleti. La mia non è una critica a chi guida la nazionale, perché non dipende da lui. Purtroppo abbiamo smesso di far sognare gli atleti, chiudendo le squadre, quando andrebbe fatto il contrario».   

C’è un atleta che ha stimato in modo particolare?

«Ho sempre avuto un rapporto speciale con Jean Marc Gaillard e ce l’ho ancora oggi. Nella mia carriera ho avuto la fortuna di trovarmi di fronte tanti atleti fortissimi. Diciamo che quando mi trovavo con la nazionale italiana stimavo in modo particolare Albarello e De Zolt, mentre nella Francia, ovviamente, la scelta ricade su Vittoz».

Se dovesse scegliere un atleta di oggi che le piacerebbe allenare?

«Sicuramente Francesco De Fabiani, perché conosco abbastanza bene questo ragazzo e mi piace la sua umiltà. Ha anche una splendida famiglia. Spero vivamente che torni ai suoi livelli»

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