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Sci di fondo

Sabina Valbusa racconta la sua nazionale: “Tutto quello che ho avuto me lo sono conquistato”

Alcuni anni all’ombra delle big Belmondo e Di Centa, a lottare per un posto in quella staffetta molto ambita che puntava sempre al podio, poi il duro allenamento e la caparbietà hanno pagato, così è arrivato il posto fisso tra le migliori atlete azzurre, fino alle prime vittorie in staffetta e anche al sogno realizzato del successo individuale in Coppa del Mondo. Sabina Valbusa è stata per oltre un decennio una presenza costante dello sci di fondo italiano, una delle altre, di quelle che non essendo Belmondo e Di Centa dovevano lottare con caparbietà per ottenere ogni risultato e tenere un posto in squadra. Abbiamo parlato con lei della sua carriera e anche della situazione attuale del fondo italiano.  
Buongiorno Sabina Valbusa: ci racconti dai suoi primi passi nello sci di fondo fino all’arrivo in Coppa del Mondo.
«Iniziai a praticare lo sci di fondo soltanto a dieci anni, quindi molto tardi, perché prima mi dilettavo sciando sui prati oppure con lo slittino. Nel frattempo mio fratello cominciò a fare il fondo e il nostro Sci Club di Bosco Chiesanuova, dove sono nata, mi propose di provare e lo feci. Sono sempre stata una grande agonista, così le prime volte mi arrabbiavo moltissimo perché la mia migliore amica mi batteva sempre. Una cosa che mi infastidiva e mi spinse così ad allenarmi sempre di più. Nei primi anni arrivavo sempre intorno al cinquantesimo posto, non ero già davanti. Poi piano piano iniziai a entrare nelle prime dieci e all’età di 14-15 anni ero sempre tra le prime tre della mia regione, così scelsi di lasciare la scuola e concentrarmi sullo sci. Dovevo fare una scelta, perché la scuola era a un’ora da casa e fui molto coraggiosa. Mi sentivo responsabilizzata nei confronti della mia famiglia, che mi aveva appoggiato, e questo mi portò a dare di più. Diede i suoi frutti, perché iniziai a stare sempre sul podio anche nelle gare nazionali e così entrai nella squadra nazionale».  
Come fu l’impatto con la nuova realtà?
«In nazionale c’erano Di Centa e Belmondo che ottenevano grandi risultati e le attenzioni erano tutto per loro. Poi c’erano Paruzzi e Vanzetta che erano sempre nelle prime posizioni, mentre noi eravamo le altre e dovevamo conquistarci tutto. Per andare a fare una gara di Coppa del Mondo dovevi essere al loro livello almeno nelle gare nazionali, anche per avere degli sci migliori dovevi mostrare di meritarteli. Nel ’93 dopo alcuni buoni risultati fui convocata come riserva ai Mondiali di Falun, ma non partecipai ad alcuna gara. A Lillehammer feci la mia prima gara olimpica individuale, ma il posto fisso in nazionale me lo conquistai soltanto nel ’95 dopo tanta fatica. Peccato che proprio in quel momento un infortunio mi fermò per un inverno intero, ma quello stare ferma forzatamente mi mise addosso tanta cattiveria, mi fece crescere la voglia di ottenere il massimo. A volte gli infortuni sono positivi».  
Come ha vissuto dall’interno la rivalità tra Belmondo e Di Centa?
«Non l’ho vissuta negativamente, perché mi sono sempre trovata bene con tutte le mie compagne di squadra e ho trovato delle amiche, come Gabriella (Paruzzi ndr) con cui condividere i momenti belli e anche quelli brutti. Certamente la presenza di Stefania e Manuela per noi era uno stimolo a fare di più, perché arrivare davanti a una di loro in gara era qualcosa di speciale, iniziavi a credere di poter ottenere grandi risultati. Queste campionesse rappresentavano un punto di riferimento, erano un esempio da imitare, anzi due esempi, perché avevano due modi diversi di vivere lo sport. Loro erano un faro, catalizzavano anche tutte le attenzioni mediatiche, una cosa che per noi poteva essere solo positiva, perché ci permetteva di ottenere risultati mediocri e fare esperienza senza che nessuno se ne accorgesse e ci criticasse».  
Quanto è stato difficile entrare in quella staffetta italiana?
«Dovevo andare molto forte per entrare nelle quattro della staffetta e dimostrare di valerla. Ricordo una volta a Dobbiaco, quando mi aspettavo di essere inserita nella staffetta A e invece mi preferirono la Dal Sasso mandandomi nella B, una cosa che mi fece infuriare. La mia risposta fu quella di dare tutto, partii come lancio e riuscii a chiudere davanti alla Dal Sasso. In quella squadra dovevi tirare fuori tutto e avere voglia di arrivare perché non ti era regalato nulla. A volte escludere un atleta da una determinata gara può apparire come una cosa negativa, ma in realtà se l’escluso reagisce, questo lo sprona a migliorare e quindi ha un risvolto positivo».  
Nei Mondiali del 1999 arrivò per lei il primo podio con l’argento in staffetta a Ramsau am Dachstein. Fu emozionante?
«Ho inseguito questo risultato per molto tempo e quando è arrivato è stato qualcosa di speciale. Tutte le medaglie sono belle, io non ho mai avuto la fortuna di vincerne una individuale, ma credo che quella di squadra abbia un sapore speciale, perché vivi in pieno il gruppo ed è bello essere felici tutte insieme dopo aver unito il lavoro di tutte per raggiungere lo stesso obiettivo».  
Ha poi vinto diverse gare in Coppa del Mondo con la staffetta italiana e anche nella sprint insieme a Gabriella Paruzzi; nel 2004 però arrivò la sua prima e unica vittoria individuale in Coppa del Mondo e proprio in Italia, a Pragelato.
«Una giornata stranissima perché era l’ultima gara della stagione e io mi svegliai molto male. Fisicamente stavo bene, ma non so perché quella mattina non avevo voglia di gareggiare e lo dissi anche ai miei parenti. Poi ovviamente presi parte alla gara e proprio per questo partii molto tranquilla dal punto di vista mentale, mi accorsi presto che stavo molto bene fisicamente e già ai primi intertempi sapevo di essere davanti. Ero però partita con un numero basso, quindi ero certa che quelle che venivano dopo mi avrebbero superato. Quella pista mi piaceva perché c’erano tante salite, la mia condizione fisica era ottima e alla fine non mi superò nessuna. Assaporai così il sapore della vittoria, scoprendo che la cosa più bella quando vinci è quella di non avere alcun punto interrogativo al termine della gara. Quando arrivi seconda o terza sei contenta per il risultato, ma ti poni delle domande, ti chiedi se avresti potuto vincere. Quel giorno fu tutto un festeggiamento, perché Gabriella vinse la classifica generale della Coppa del Mondo e fu uno dei momenti più belli di quegli anni, in cui ci siamo sempre divertite, vivevamo bene insieme e ci aiutavamo molto. Eravamo un bel gruppo, condividevamo tutto, così se arrivavano i risultati festeggiavamo in maniera completa».  
Proprio in staffetta arrivò il podio alle Olimpiadi di Torino, immagino sia stata un’altra grande emozione.
«Eravamo un gruppo molto affiatato e vivemmo questa esperienza al meglio, credendoci sempre. Le Olimpiadi torinesi erano qualcosa di speciale, perché già da molto tempo erano pubblicizzate ed era un’emozione particolare pensare di essere tra i partecipanti. Il fatto che si disputassero in Italia rendeva questo evento ancora più sentito e noi conquistammo una medaglia che alla vigilia era inattesa perché non eravamo tra le favorite. Non riesco nemmeno a descrivere l’emozione che provai quel giorno a Torino, una persona può capirla soltanto vivendola. Ancora oggi fatico a trovare le parole per farlo. Il giorno dopo i ragazzi vinsero l’oro e tra loro c’era anche mio fratello Fulvio. Tutto fu ancora più bello, perché mio fratello mi è sempre stato di supporto, ci siamo sempre aiutati e su di me ha avuto un’influenza positiva. Non ho mai avuto un sentimento di rivalità nei suoi confronti».  
Cosa fa oggi Sabina Valbusa?
«Lavoro nella Guardia Forestale, perché non ho voluto ruoli federali o politici. Non sono adatta per questi incarichi. Inoltre, avendo tempo, ho deciso di dare una mano all’AS Pavullese, uno sci club della Provincia di Modena, dove oggi vivo. Aiuto anche il Comitato Regionale dell’Emilia Romagna. Per il momento curo molto il gruppo, perché a questa età è meglio non vincere una gara ma avere tutti i ragazzi all’allenamento del lunedì, piuttosto che avere due atleti che vincono e gli altri che lasciano. Questo sport è utile soprattutto per crescere bene. Inoltre, come dico spesso a questi ragazzi, io alla loro età arrivavo cinquantesima e poi sono arrivata alla medaglia olimpica».  
Ci sono tante polemiche sull’attuale squadra femminile che non sta ottenendo risultati di rilievo: cosa ne pensa?
«Come ho detto prima, io sono stata più fortunata perché se arrivavo oltre il ventesimo posto non se ne accorgeva nessuno, essendoci Belmondo e Di Centa. Credo che queste ragazze si siano trovate a gestire una situazione più grande di loro, perché noi avevamo la possibilità di crescere un gradino alla volta e avere un ruolo minore in squadra, mentre loro si sono trovate subito a essere titolari, quando avrebbero avuto bisogno di atlete più forti davanti a loro, che gli facessero da guida. Hanno tutto ma non hanno la giusta esperienza per gestirlo. Aggiungo poi che non se lo sono dovute guadagnare, perché sono riuscite ad arrivare all’obiettivo di far parte della nazionale senza doversi impegnare troppo per raggiungerlo, essendosi abbassato un po’ il livello complessivo. Sono giovani, hanno tempo per crescere, ma forse dovrebbero credere di più nei loro allenatori, avere maggior rispetto del gruppo. Da noi c’erano delle regole e soprattutto una gerarchia di squadra. Ho poi una mia idea personale, che non riguarda soltanto lo sci ma anche gli altri sport: oggi c’è un benessere generale che non ti fa avere la fame che c’era una volta. Io sapevo di dover ottenere degli ottimi risultati per avere qualcosa in più, riuscire a conquistarmi uno skimen personale e altri benefici. Oggi invece si ha già tutto, hai già gli sci e tutti i benefici necessari, una cosa che forse toglie un po’ di stimoli, di cattiveria e voglia di arrivare. Si hanno meno motivazioni. Inoltre non so se vestire la tuta dell’Italia sia per un atleta tanto appagante, quanto era ai miei tempi».

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