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Sci di fondo

Cristian Zorzi, il campione che aveva iniziato per gioco

Intervistare Cristian Zorzi è un vero piacere, non soltanto per l’onore di parlare con chi ha vinto tre medaglie olimpiche, due mondiali e ha conquistato la bellezza di 29 podi in Coppa del Mondo, ma perché di fronte si ha una persona schietta, sincera, mai banale, critica con gli altri ma anche con se stessa e soprattutto divertente e sempre pronta allo scherzo. Non a caso Zorzi, quando era in attività, era sempre sotto osservazione da parte dei media, nel bene o nel male, proprio per questo suo modo di essere. Un personaggio mai banale, non a caso soprannominato “Zorro”, non soltanto per assonanza, ma anche per il suo essere pungente in pista e a parole.  
Buongiorno Cristian Zorzi. Partiamo dagli inizi, lei si è avvicinato tardi allo sci di fondo.
«Si, fino all’età di 12-13 ho fatto tanti altri sport invernali. Ho iniziato con la discesa quando ero molto piccolo, poi ho provato il salto, lo slittino in strada, ho giocato a hockey su ghiaccio per due anni, quindi sono passato allo sci di fondo. Ho disputato poche gare a livello regionale e in una di queste c’era la possibilità per i primi cinque di andare ai campionati nazionali e per chi come me era al primo anno, anche di fare gli Europei studenteschi in Svezia. Chiusi al quarto posto, una cosa che mandò su tutte le furie alcuni genitori degli altri ragazzi, che si lamentarono, perché non mi avevano mai visto prima di quel giorno, visto che avevo appena iniziato. Scelsi di rifiutare i Nazionali, ma andare in Svezia agli Europei Studenteschi, anche se per la carriera sarebbe stato meglio fare una scelta diversa. Io, però, non pensavo proprio all’ipotesi di fare una carriera, non sapevo nemmeno che si potesse vivere di sport e quindi scelsi la cosa più attraente come esperienza di vita. Ricordo che fu fantastico, dormivamo per terra in una scuola e tutti erano più alti di me».  
Insomma non pensava a un futuro in questo mondo.
«Fino all’età di16 anni, quando fui contattato dai corpi militari, per me questo era solo un gioco e sceglievo senza pensare alla carriera. Spesso prendevo anche le gare alla leggera e un anno durante l’estate smisi di allenarmi, perché non volevo staccarmi dagli amici, visto che non avevo l’idea di fare carriera. Ho proseguito quasi per caso, fino ad arrivare al primo anno da “Aspirante” a 16 anni. Mi ero detto di andare avanti ancora per quell’inverno, ma d’improvviso vidi che continuavo a migliorare e nelle gare nazionali di fine stagione ero sempre a podio, insieme a gente del calibro di Di Centa. Da lì capii che potevo fare qualcosa di buono e in quel momento arrivarono i corpi militari. Per due anni sono stato aggregato alla Forestale, poi entrai nella Guardia di Finanza e subito in nazionale, dove sono stato per vent’anni senza mai uscire».  
Come fu il primo impatto con la Coppa del Mondo?
«Quasi drammatico perché mi trovai ad affrontare dei mostri sacri e la velocità era molto diversa rispetto alla Coppa Europa. Fu come passare dalla Formula 3000 alla Formula 1. Nei primi anni feci solo qualche sporadico piazzamento e in qualche gara a tratti riuscii anche a farmi notare, come a Sappada quando io e Pietro (Piller Cottrer ndr) partivamo con gli ultimi numeri, perché eravamo giovani, e iniziammo fortissimo, tanto che per una buona parte di gara eravamo tra i primi, poi scoppiammo e tornammo nelle nostre solite posizioni. Quello però fu un segnale, dimostrammo che c’erano le possibilità per fare bene in futuro, crescendo fisicamente e nella resistenza. Successivamente ottenni i primi risultati nelle 50 e nelle 30, poi mi convertii alle gare sprint».  
Passiamo proprio allo sprint, dove divenne un vero e proprio specialista.
«Ho sempre avuto un’ottima qualità, quella di copiare dagli altri le cose migliori. Io osservai bene i norvegesi, che furono i primi ad allenarsi su questa specialità e così nelle prime posizioni c’erano sempre tante divise rosse e quella mia blu. Inoltre io avevo una buona tecnica e la qualità di uno sprinter è quella di sciare molto bene. Allo stesso tempo sapevo stare in mezzo agli altri senza preoccuparmi di stare in equilibrio, leggevo bene la gara a contatto con gli altri atleti. Con gli anni, poi, la mia tecnica si è evoluta, tanto che se rivedo i filmati delle mie prime gare, noto che sono cambiato molto. Mi sono adattato più velocemente di altri a questa specialità».                        
La sua velocità le valse il ruolo di ultimo staffettista azzurro.
«Le staffette mi davano gioia. Io facevo sempre l’ultima frazione, ero un ottimo sprinter e avevo una buona resistenza, così anche se la gara non prevedeva l’arrivo in volata, ottenevo lo stesso ottimi risultati. Eravamo veramente un bel gruppo, così anche se nel quartetto c’era una sostituzione, riuscivamo subito ad adattarci».  
Nel frattempo arrivarono le prime vittorie individuali in Coppa del Mondo.
«Quando vinci in coppa del mondo non ti sembra vero, perché per un bel po’ sei li che lotti solo per fare punti, poi in poco tempo cresci, diventi competitivo e ti giochi il podio. Per due anni persi la Coppa del mondo della specialità sprint per pochi punti, così dalla gioia per le vittorie passavo al dolore della mancata conquista della coppa. Questo ci sta nello sport, perché sono più le sconfitte rispetto alle vittorie. Per arrivare al successo, devi prima passare attraverso le delusioni».  
Poi arrivò la fantastica vittoria dell’oro olimpico con la staffetta a Torino. Ce lo racconti.
«Nel corso della conferenza stampa ricordo i miei compagni che, forse per scaramanzia, dissero di augurarsi di fare bene e giocarsi un posto sul podio. Quindi arrivai io che in modo spavaldo affermai che eravamo lì per vincere. Questo perché eravamo tutti in grande in forma, ognuno aveva preparato quell’evento in modo perfetto. Io per esempio andai lontano dai media, perché spesso perdevo delle energie nella preparazione per dare troppo spazio ai giornalisti. Inoltre sapevo che i tecnici avevano preparato tutto alla perfezione, che conoscevano vita, morte e miracoli di quella neve. Insomma tutto si amalgamò alla perfezione e quel giorno eravamo una bomba pronta a scoppiare. Inoltre una motivazione in più per noi era legata al fatto che i norvegesi dicevano sempre di volerci arrivare davanti per vendicare Lillehammer. Ma noi avevamo le idee ben chiare: “Se i nostri predecessori ve l’hanno presa in casa, noi non ci faremo battere da voi qui, da tutti ma non da voi”».                                                                                                               
Fauner ci ha confessato di non aver capito più nulla dopo la vittoria di Lillehammer, lei invece ha avuto tutto il tempo per pensare.
«Si, sono arrivato in solitario così ho avuto anche tempo per pensare a cosa fare. Non avrei mai immaginato di arrivare con tutto questo vantaggio sul rettilineo finale, perché quando fu il mio turno eravamo in testa con pochi secondi di vantaggio e molti si aspettavano una volata. Il mio istinto però mi disse di partire forte e non giocarmela in volata, dove ero sulla carta il più veloce, ma alla fine è sempre un’incognita. Ho fatto una gara splendida e mi sono avvantaggiato tantissimo, così mi sono goduto il rettilineo e ho pensato tanto alla mia famiglia, a mia moglie, mia suocera, mio figlio e i tecnici nazionale. Poi presi la bandiera e mi portai anche il dito vicino alla bocca, un gesto istintivo, che fu motivato da avvenimenti accaduti a inizio stagione. Vi racconto un segreto: quel gesto era riferito a un giornalista di una rete televisiva, che disse certe cose dopo la prima gara della coppa del mondo, quando calai sulla salita finale e arrivai quarto al traguardo. Per fare quella salita velocemente bisognava essere in condizione e noi italiani abbiamo sempre sofferto nelle prime gare, per i grandi carichi di lavoro che facciamo durante la preparazione. Quel giornalista mi attaccò, disse che se si fosse trovato al posto dei tecnici, ci avrebbe pensato bene prima di mettermi nella staffetta olimpica, perché quello delle Olimpiadi torinesi era un tracciato duro, con la famosa salita del “lupo”. Questa cosa non mi andò giù, perché si era permesso di giudicare il mio risultato e l’operato tecnici. Secondo me da giornalista italiano dovresti tifare più Italia o comunque prima di dire una cosa del genere dovresti prima porti delle domande. Così quando mi ritrovai sul rettilineo verso il traguardo della staffetta olimpica, mi venne nuovamente la rabbia e mi portai il dito davanti alla bocca, per dirgli di stare zitto. Al termine della gara non rilasciai alcuna intervista alla tv dove lavorava quel giornalista».  
Nel 2007 vinse l’oro anche nello sprint a squadra. Come gioia è paragonabile a quella olimpica?
«No, sono due cose molto diverse. Se penso a Torino ho ancora la pelle d’oca, perché è un sogno che si è avverato e che ancora non mi sembra vero. Una vittoria che mi fece pensare alla famiglia. Invece quella di Sapporo fu un successo sorprendente, perché solitamente dopo un oro olimpico si partecipa a molte manifestazioni, a tanti eventi mediatici e si perde la concentrazione. Infatti l’inizio della stagione 2006/07 fu travagliato, ebbi molti alti e bassi, ma a Sapporo il mio compagno di squadra Pasini, riuscì a darmi una carica speciale, così conquistammo questo oro, per me insperato perché non mi sentivo in condizioni ottimali, avevo molti dubbi. Dopo quella vittoria ebbi uno scaricamento di adrenalina assurdo, tanto che se mi avessero dato una motosega avrei tagliato diecimila metri cubi dei legna in un secondo».  
Lasciata la carriera agonistica, cosa sta facendo oggi?
«Sono istruttore di compagnia, istruisco i finanzieri allievi a marciare, stare sull’attenti e tante altre cose.  Inoltre faccio anche diverse apparizioni in manifestazioni ciclistiche, ciaspolate o gare di sci di fondo. Lo scorso anno collaborai con la nazionale nel corso dei Mondiali di Sci Nordico a a Falun, prendendomi le ferie dal lavoro. Vi lascio però svelandovi un altro segreto: quest’anno c’è la possibilità che possa tornare a collaborare con la nazionale, grazie alla Finanza, in particolare il Colonnello del Gruppo Sportivo, il Colonnello del 5° Nucleo di sci e il mio Colonello di scuola alpina».

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