Se andate in Brasile fate bene attenzione a non nominare mai la finale della Coppa del Mondo di calcio del 1950 contro l’Uruguay o il famoso 1-7 di due anni fa contro la Germania, perché potreste causare delle crisi di panico o mandare in depressione qualcuno. Ecco, se andate in Norvegia non nominate mai la volata della staffetta maschile di sci di fondo delle Olimpiadi di Lillehammer 1994, quando quella che sembrava una squadra norvegese imbattibile fu sconfitta dall’Italia in una volata che ammutolì per molti minuti il pubblico, che fino a quel momento era stato molto rumoroso. L’eroe italiano di quella volata fu Silvio Fauner, che sconfisse l’idolo di casa, una delle leggende di questo sport, Bjorn Daehlie. Intervistare Fauner è stato per noi un piacere, perché ci siamo imbattuti in una persona dalle idee molto chiare, che ama parlare di sport ed è capace di trasmettere le sensazioni che un atleta vive in pista.
Buongiorno Silvio Fauner, lei è stato un grandissimo fondista. Come ha iniziato a praticare questo sport?
«Per divertimento e per tutta la mia carriera è stato così, mi sono innanzitutto divertito. Comunque ho iniziato perché ho due sorelle e un fratello, tutti più grandi di me. Mio fratello, che ha tre anni di più, aveva iniziato a praticare sci alpino, poi spinto anche dagli amici, scelse il fondo e io lo seguii, cominciando per gioco».
Quando ha capito che il gioco stava diventando qualcosa di più?
«Ho capito presto di essere forte, già con le prime vittorie, ma sono andato avanti sempre in maniera tranquilla e serena, senza pressioni da parte mia e di chi mi stava attorno. Certo, già dalle giovanili, quando tra i 14 e i 16 anni vincevo le gare con uno o due minuti di vantaggio, si capiva che avevo qualcosa di speciale. Anche nella categoria “junior” le cose rimasero pressoché invariate e nel 1987 nei Campionati Mondiali “junior” ad Asiago vinsi due medaglie. In quel momento tutti dissero che avevo un futuro in questo sport, ma io non ho mai dato peso alle voci che arrivavano dall’esterno e praticavo il fondo soltanto perché mi piaceva. Le cose cambiarono quando entrai nel Centro Sportivo Carabinieri, a quel punto capii che si faceva sul serio, perché c’era gente che credeva in me e stava investendo su di me».
Arrivò in nazionale, dove ebbe modo di gareggiare con il suo idolo Maurilio De Zolt.
«Lo conoscevo perché quando sciavo all’età di 13-14 anni, lo vedevo allenarsi sulle piste dove noi giocavamo, chiedendomi chi fosse quello che andava così veloce. Così iniziai a seguirlo nelle gare in tv. Qualche anno dopo mi trovai in squadra con lui e andavamo in macchina insieme nei viaggi per gli allenamenti estivi e le gare, perché vivevamo a soli cinque chilometri di distanza. Mi ha insegnato tantissimo».
Passiamo al grande trionfo di Lillehammer: vi aspettavate di poter battere quella Norvegia, che molti consideravano imbattibile?
«Da parte loro fu un dramma, ma noi eravamo consapevoli di poter compiere quell’impresa. Sapevamo che sarebbe stato molto difficile, ma la consideravamo comunque fattibile, perché sapevamo che se tutto fosse andato per il verso giusto, avremmo potuto dargli problemi. Il nostro punto di forza fu proprio quello di crederci nonostante i pronostici fossero contro di noi».
Come si è sentito quando all’ultimo cambio si è trovato con Daehlie in lotta per la vittoria? Sentiva molte responsabilità?
«Ho vissuto quel momento in maniera tranquilla, perché una delle mie grandi capacità è sempre stata quella di sapermi staccare completamente, avere il sangue freddo e gestire i pensieri. Così quando mi sono trovato lì con Daehlie grazie al lavoro degli altri, non sentivo la pressione ma la consapevolezza che avrei dato il meglio di me. Questo anche grazie alla riunione del giorno prima, nella quale si era detto che avevamo delle concrete possibilità di vincere, perché i norvegesi li avevamo già battuti in stagione, a volte eravamo stati sconfitti di poco e sapevamo di giocarcela. In questa occasione avevamo anche messo in chiaro che le staffette si corrono in quattro, si vincono e si perdono in quattro, quindi se qualcuno quel giorno non fosse riuscito a dare il meglio di sé, l’eventuale sconfitta non sarebbe stata per colpa sua. Inoltre sapevamo che arrivare a medaglia sarebbe stata comunque una vittoria».
Può raccontarci quella volata? In quel momento ha pensato qualcosa o ha agito d’istinto?
«Ognuno vive questi momenti in modo soggettivo. Io a detta di tutti, compagni e avversari, ero uno degli atleti più tattici al mondo. Nei giorni precedenti avevamo provato i materiali, ci eravamo allenati e avevo imparato il percorso a memoria. Avevo perfettamente in testa quell’ultimo chilometro e già prima della gara mi ero studiato diverse ipotesi sul come mi sarei comportato se fossi arrivato in volata con diversi atleti, oppure soltanto con Daehlie. Insomma avevo pensato a una tattica per ogni eventualità. Mi trovai solo con Daehlie e durante la gara ragionavo riguardo cosa fare. Il mio obiettivo era quello di restare attaccato a lui per giocarmi tutto all’ultimo chilometro come volevo io. Sapevo che Daehlie avrebbe cercato di staccarmi, perché aveva paura di me in volata, situazione alla quale i norvegesi non pensavano di arrivare e forse qui peccarono di presunzione, perché si sentivano la squadra più forte. Daehlie fece di tutto e di più per staccarmi, ma arrivammo insieme e io lo sorpresi».
Come?
«Tatticamente feci una cosa strana: in qualsiasi volata, soprattutto nel ciclismo che ho sempre seguito e al quale mi sono spesso ispirato, solitamente uno prova a partire da lontano oppure lancia la volata negli ultimi duecento metri, con l’altro che prova a prendere la scia. In quella gara Daehlie provò a staccarmi cinque o sei volte, ma a poco più di un chilometro dalla fine si era rassegnato all’arrivo in volata. A quel punto feci una cosa imprevedibile, che sorprese anche i miei stessi compagni, gli passai davanti a un chilometro dalla fine, anche se era troppo tardi per staccarlo e troppo presto per una volata lunga. La mia era però una battaglia psicologica, lo feci perché dopo nove chilometri nei quali aveva provato a staccarmi senza riuscirci, gli andai avanti per fargli capire che stavo meglio di lui, e non avevo bisogno della sua scia, non lo temevo. Qualche giorno dopo Daehlie venne da me e mi disse che quel mio gesto l’aveva spiazzato, perché aveva capito che ne avevo ancora».
Quindi la volata e quel fantastico arrivo che ammutolì le centinaia di migliaia di tifosi norvegesi presenti.
«Lì per lì non ci capii nulla, tra fatica e adrenalina nemmeno mi accorsi di quel silenzio irreale. Lo feci solo qualche giorno dopo riguardando la gara in tv».
È stata una vittoria storica, eppure più volte ha affermato che non ritiene quella di Lillehammer la vittoria più bella della sua carriera.
«Sicuramente l’oro in una staffetta olimpica è il risultato più grande che un atleta possa raggiungere, ma personalmente vincere l’oro nella 50km dei Mondiali di Thunder Bay in Canada mi diede qualcosa in più. Io ero forte nelle staffette e nell’inseguimento, perché ero bravo tatticamente e inoltre mi stimolava correre con gli altri in pista, sfidare l’uomo. La gara individuale a cronometro, invece, è sempre stata per me un handicap e vincere una gara dove non ero forte mentalmente fu il massimo. Non me ne vogliano gli altri atleti, ma la 50km è la nostra gara regina, quindi mi sono sentito come Baldini quando vinse la maratona ad Atene nel 2004».
Individualmente ha vinto due gare in Coppa del Mondo, entrambe nello stesso weekend in Giappone.
«Si, vinsi quelle due gare alle preolimpiche in Giappone. Purtroppo nella mia carriera mi sono trovato nelle condizioni migliori nel momento sbagliato, perché in quegli anni eravamo in molti che potevamo puntare soltanto al podio, correre per il terzo posto. Il novanta per cento delle gare infatti le vincevano Daehlie e Smirnov».
Un tattico come lei, come si sarebbe trovato con le gare sprint di oggi?
«Mi sarei trovato bene, ne corsi anche alcune e ottenni degli ottimi risultati, cogliendo dei podi, perché ero un atleta polivalente in grado di dare il meglio sia nel classico che nello skating. Per alcuni anni le gare sprint sono state pure, con pista breve e percorso facile, invece oggi anche chi vince la 50km come Cologna, può fare lo stesso nella sprint. Certo, c’è ancora chi è uno specialista, come il nostro Pellegrino che anno dopo anno sta iniziando a crescere anche sulle lunghe distanze».
Per alcuni anni è stato anche tecnico della nazionale, poi cos’è successo?
«Dal 2007 al 2014 sono stato tecnico della nazionale e in quegli anni abbiamo raccolto dei buoni risultati. Un anno abbiamo fatto anche il record di podi in coppa del mondo, addirittura 27 o 28 podi, una cosa mai successa in precedenza. Inoltre vincemmo il campionato del mondo con Arianna Follis, la medaglia a Vancouver con Pietro Piller Cottrer più altre medaglie. Poi è cambiata presidenza della FISI e ogni presidente giustamente sceglie il suo entourage, magari per simpatia, capacità o altro. Comunque è giusto così, perché ognuno deve tenere un ruolo soltanto per un determinato periodo. Purtroppo all’interno delle federazioni ci sono tecnici che girano da molti anni e si riciclano, restando lì per decenni. Per me è un errore, perché ritengo necessario il turnover, come accade nelle migliori aziende, dove i responsabili di settore cambiano spesso ruolo per creare nuovi stimoli ai dipendenti. Credo che anche nello sport deve accadere la stessa cosa, perché un tecnico che resta nel medesimo ruolo per anni, dopo un po’ di tempo perde inevitabilmente la voglia di portare nuove idee, di cambiare e resta ancorato al passato. Spostare e cambiare tecnico può dare degli stimoli nuovi».
Dopo aver lasciato il suo ruolo in nazionale, cosa fa oggi?
«Sono responsabile delle prove nordiche del Centro Sportivo Carabinieri e in questo momento sono anche presidente di un’associazione sportiva che crea eventi e stiamo organizzando una mezza maratona, che è alla sua seconda edizione. Con i Carabinieri insieme ai miei comandanti ho fatto ripartire la sezione giovanile del Centro Sportivo e grazie a dei progetti mirati attuati insieme ai comitati regionali, abbiamo aggregato sei atleti per nordico e biathlon, che ha portato degli ottimi risultati».
Fauner ricorda il trionfo di Lillehammer: “Ecco come sconfissi quel fenomeno di Daehlie”
Ti potrebbe interessare
Maratona dles Dolomites 2023 – Lisa Vittozzi quarta sul Sella Ronda! Bene anche Federico Pellegrino, Cristian Zorzi e Pietro Dutto
È una Lisa Vittozzi monumentale quella che ha disputato oggi la Maratona dles Dolomites 2023, scegliendo di
Sci Nordico – Gelo a Ruka, le temperature potrebbero arrivare a -20°; gare a rischio?
Arriva subito una prima difficile sfida per la Coppa del Mondo di sci di fondo in programma a Ruka. Secondo le
Sci di fondo – L’entusiasmo di Qiang Wang alla vigilia della stagione invernale
Continua la preparazione invernale per Qiang Wang che quest’inverno tornerà finalmente a gareggiare a