Ogni sport ha avuto un momento in cui è cambiato tutto, nel quale le cose non sono più state come prima. Nel calcio c’è stata l’Olanda di Cruijff che ha cambiato per sempre il gioco, il salto in alto ha avuto Fosbury e lo sci alpino Ingemar Stenmark. L’uomo che ha cambiato per sempre la storia dello sci nordico è stato Franco Nones, italiano della Val di Fiemme, che nelle Olimpiadi del 1968 vinse la medaglia d’oro nella 30 chilometri. Prima di lui nessun atleta non scandinavo era riuscito in questa impresa.
Buongiorno Nones. Come mai in un periodo nel quale lo sci nordico era praticato quasi esclusivamente in Scandinavia, lei si appassionò a questa specialità?
«Perché la Val di Fiemme è sempre stata prevalentemente terra di fondisti e avevamo inoltre la Guardia di Finanza di Predazzo e il corpo di Pubblica Sicurezza di Moena che praticavano questi sport e se riuscivi a entrarci avevi il lavoro assicurato. Certo non ho iniziato a fare fondo pensando che potesse diventare un lavoro, ma per passione».
Nel 1968 si rese protagonista di una grande impresa, quella di battere per la prima volta degli atleti scandinavi in una gara olimpica di sci nordico.
«In realtà già nelle Olimpiadi del 1964 feci molto bene, in quanto conclusi in decima posizione la 15 chilometri di Innsbruck e dal momento che ogni nazione aveva in squasra quattro atleti, significava aver battuto quasi la metà tra svedesei, norvegesi, finlandesi e russi. Arrivai a meno di un minuto dal vincitore e non distante dal podio. Negli anni successivi vinsi diverse gare in Scandinavia, conquistai uno storico bronzo con la nazionale italiana nella staffetta dei Mondiali di Oslo del 1966 e quindi arrivò il successo Olimpico di Grenoble».
In Francia lei dominò dall’inizio alla fine.
«Si, qualcuno disse che ero partito troppo presto, visto che andai in testa già dopo cinquecento metri di gara, ma ho lentamente aumentato il mio vantaggio. Quella mia bellissima vittoria non fu però una sorpresa, perché in quella stagione avevo disputato 11 gare in Scandinavia e il mio peggior risultato fu un quarto posto. Tutta la stampa scandinava mi metteva sul podio».
Come venne accolto il suo successo dagli avversari scandinavi?
«Molto bene, perché per gli organizzatori la via vittoria rappresentava una svolta, infatti fino a quel momento questo veniva considerato uno sport molto piccolo, perché praticato solo dagli scandinavi. Il mio successo aprì le porte dello sci nordico a tutto il mondo».
Insomma, lei ha cambiato per sempre la storia di questo sport.
«Si, la mia vittoria rappresentò una rivoluzione per lo sci di fondo, non solo dal punto di vista agonistico, ma anche economico, perché si iniziarono a vendere più sci. Per esempio in Italia ai miei tempi si vendevano circa 500 paia di sci per il fondo l’anno, vent’anni dopo il numero salì di oltre cento volte, arrivando a ben 75000 paia l’anno. Negli anni sessanta non c’erano molti luoghi dove praticare questo sport, mentre dopo la mia vittoria si iniziò a parlare di organizzare la Marcialonga, la cui prima edizione si disputò nel 1971 e la Val di Fiemme è diventata una terra importante per lo sci nordico mondiale, tanto da aver ospitato i Campionati Mondiali ben tre volte negli ultimi 25 anni».
La sua carriera è stata breve, perché partecipò ancora ai Giochi del ’72 e si ritirò.
«Ho smesso immediatamente, perché ho iniziato la mia attività commerciale. Dovevo battere il ferro finché era caldo, perché tutti sapevano chi fossi, così quando entravo in un negozio, riuscivo a vendere tutti i miei prodotti. Oggi gli atleti finiscono tardi e fanno gli appuntati, mentre io volevo sfruttare la medaglia d’oro per lanciare la mia attività».
Quindi ha lasciato presto lo sci di fondo.
«Non proprio, perché per vent’anni sono stato membro esecutivo della federazione internazionale. Inoltre sono stato il primo a parlare di Marcialonga e sono stato sempre presente nell’organizzazione degli eventi che si sono svolti da queste parti».
Cosa pensa dello sci nordico di oggi?
«Lo sci di fondo mi piace, anche se sono cambiati tecniche e materiali, perché l’evoluzione andava seguita».
Come giudica le prestazioni dei fondisti italiani?
«Direi che in Italia abbiamo delle belle punte, Pellegrino su tutti. Purtroppo abbiamo poca base di squadra, ma delle grandi punte che sono in grado di raggiungere ottimi risultati a livello mondiale».
Negli ultimi anni è stato un dominio norvegese.
«Vero, ma è giusto così. Quando si svolgono le gare da queste parti, la squadra norvegese viene sempre nel mio albergo, li conosco molto bene, e posso dire con certezza che sono la squadra più organizzata. Quando c’è l’organizzazione i risultati vengono di conseguenza. Loro stanno anche bene economicamente, ma non sono i soldi a fare i risultati, quelli li portano la programmazione, la preparazione e il metodo. Nella nazionale norvegese tutti gli atleti vengono tenuti sullo stesso piano, sono tutti trattati alla stessa maniera e questo aiuta a far crescere gli atleti come squadra».
Secondo le è questo che manca all’Italia?
«Non c’è dubbio che in Italia alcuni atleti sono maggiormente seguiti rispetto ad altri. Probabilmente abbiamo cominciato a fare così qualche decennio fa, quando avevamo tre o quattro atleti ai quali era stato concesso un allenatore personale. Secondo me quando quando si è in nazionale deve esserci un unico responsabile che comanda. È come nel calcio, è la squadra che conta».
Secondo lei, quindi, la squadra è importante anche in uno sport individuale come lo sci nordico?
«Si il fondo è uno sport individuale, ma durante la preparazione bisogna allenarsi in gruppo, così il primo tira l’ultimo. Nei primi anni che ero in Svezia ad allenarmi, rubai il mestiere agli scandinavi, perché li guardavo, li imitavo e allenandomi con loro miglioriamo. Se non si fa così finisce che quando i grande atleti, come la Di Centa e la Belmondo, si ritirano, dietro resta il vuoto. Lo stesso è accaduto anche nello sci alpino. Negli anni settanta non c’era solo Thoeni, ma la “valanga azzurra”, mentre negli anni novanta c’era solo Tomba, che aveva il suo tecnico personale».
Nell’intervista che ci ha rilasciato due giorni fa, il presidente Kasper ha ammesso di temere i risultati degli esami antidoping delle Olimpiadi di Sochi. Cosa ne pensa?
«Ai miei tempi nemmeno si sapeva cosa fosse il doping. Lo sport esiste perché vinca il più forte, grazie al suo fisico naturale frutto dell’allenamento e non coloro che hanno dei motorini extra. Il doping è una presa in giro nei confronti degli appassionati che vanno a una gara per applaudire gli atleti. Purtroppo fino a quando nello sport non ci saranno delle regole chiare riguardo all’antidoping e spesso le squalifiche sono determinate dalla bravura dell’avvocato difensore, sarà difficile risolvere il problema. Io sono piuttosto drastico: nessuno obbliga un atleta a fare sport e questo deve farlo con onestà e coscienza, altrimenti deve smettere».
Franco Nones: “Il fondo? È uno sport individuale nel quale si deve lavorare come squadra”
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